di Antonio Picariello*
È noto ai più che dal novembre 2018 il Banco di Napoli ha definitivamente perso la sua autonomia ed è stato assorbito da Intesa San Paolo nell’ambito della razionalizzazione delle attività e del nuovo piano industriale al 2021. Seppur controllato al 100% dalla cordata lombardo-piemontese, fino ad allora il Banco di Napoli aveva goduto di una forma giuridica separata e di autonomia decisionale. Tutto questo non è più. Ma le ragioni? L’AD Messina frettolosamente dichiarò che semplicemente si trattava di “un passaggio di un più ampio processo di semplificazione che riguarda tutte le banche del Gruppo dotate di entità giuridica diversa da quella di Intesa Sanpaolo”; passaggio che previde il riassetto del risparmio gestito e delle assicurazioni e il taglio dei costi con il pesante tributo del personale. Ma il Banco di Napoli, tra le banche “autonome” del gruppo, era la più importante e Messina tralasciò di accennare ad un aspetto importante della faccenda: MIFID 2. Prima però andiamo un po' a ritroso nel tempo.
Storicamente il Banco di Napoli trae le sue origini dai cosiddetti banchi pubblici dei luoghi pii sorti a Napoli tra il XVI ed il XVII secolo. In particolare da uno di questi, il Banco della Pietà, sorto nel 1539 per concedere prestiti su pegno senza interessi insieme ad altri “istituti” che vennero fondati a Napoli fino al 1640. Fu poi Ferdinando IV di Borbone nel 1794 a riunirli tutti nel Banco Nazionale di Napoli. Al tempo dei Borbone le attività del Banco erano intimamente legate al territorio ed al suo tessuto imprenditoriale. Inoltre, dopo la restaurazione, la ragionevolezza dei regnanti di Napoli fece sì che il Banco di Napoli mantenesse tutte le modifiche, sia istituzionali che fisiche, che i napoleonici avevano introdotto all’interno dell’Istituto e che lo avevano reso per l’epoca molto all’avanguardia. Così nel 1861, i piemontesi si trovarono a gestire la banca più importante, per storia e per capitale, della penisola. L’espansione post annessione ebbe inizio con la creazione di una cassa di risparmio, successivamente incorporata, e con l’apertura delle prime filiali fuori dall’area meridionale: Firenze (1867), Roma (1871) e Milano (1872). Fu creata altresì, una sezione di Credito Agrario con il primario compito di finanziare lo sviluppo dell’agricoltura meridionale. Sempre sotto i savoiardi, all’Istituto fu conferito il diritto di emettere carta moneta insieme ad altri cinque istituti di credito che si ridussero a tre in seguito allo scandalo della banca Romana dalla quale nacque, successivamente, la Banca d’Italia che, insieme al Banco di Napoli e al Banco di Sicilia, rimasero le uniche ad emettere moneta. Comprenderete la considerazione e l’affidabilità delle quali godeva il nostro istituto bancario presso l’usurpatore e nel resto d’Europa. Nonostante le ruberie sabaude, agli inizi del XX secolo (nel 1926 sarà solo la Banca d’Italia ad emettere carta moneta) il Banco deteneva una riserva aurea di circa un miliardo di lire dell’epoca: una somma superiore alle riserve di tutte le altre ex banche di emissione messe insieme.
Inoltre il regno savoiardo investì il Banco di Napoli (forse per farsi perdonare di aver scatenato il fenomeno emigrazione, o molto più probabilmente per l’affidabilità e la garanzia del buon nome dell’Istituto), della concessione governativa in via esclusiva per la raccolta delle rimesse degli emigrati dagli Stati Uniti autorizzandolo ad aprire una filiale a New York nel 1909, i cui agenti erano diffusi in tutte le località dove si trovavano italiani. Il Banco fu altresì autorizzato ad operare con il Credito Agrario, oltre che Fondiario istituendo delle apposite Sezioni Speciali dove venivano esercitati questi crediti specializzati. Accanto alle operazioni, diciamo così, istituzionali, il Banco operava in prima fila per lo sviluppo economico e commerciale del Mezzogiorno, finanziando imprese ed agricoltura. In particolare dopo la crisi del 1929, assunse un ruolo fondamentale per il salvataggio delle piccole banche del Sud Italia e dal dopoguerra, insieme all’ISVEIMER, del quale deteneva il 28.5%, e alla Cassa del Mezzogiorno fu il vettore finanziario attraverso il quale lo stato operò la politica per lo sviluppo dell’industria (seppur settentrionale) nel meridione d’Italia.
Nel 1983 venne nominato direttore del Banco il prof. Ferdinando Ventriglia fautore della grande ascesa del Banco e al quale furono indissolubilmente legate tutte le vicende successive. Ma chi era “Re Ferdinando”? Innanzitutto fu il capro espiatorio di una vicenda che vide confrontarsi, all’epoca, cattolici e massoni e vide, altresì, il boicottaggio del Banco da parte della politica ascara meridionale al fine di farlo andare gambe all’aria per salvare BNL e INA. Ma andiamo per gradi.
Ferdinando Ventriglia, classe 1927, nacque a Capua, si diplomò a 16 anni e si laureò in Economia alla Federico II a 20. Figlio di una formazione di altri tempi, improntata sulla ferrea disciplina borbonica, venne assunto nel 1947 al Banco di Napoli dove cominciò all’Ufficio Studi, costituito, primo in Italia, nel 1931, e la cui funzione era quella di monitorare l’economia del territorio; possedeva anche una propria rivista, la “Rassegna Economica”, oggi gestita dall’Associazione Studi e Ricerche per il Mezzogiorno, che ha ereditato il patrimonio informativo e di competenze del vecchio Ufficio Studi. Ventriglia, quindi, che intanto si era iscritto alla FUCI, iniziò a lavorare in una Napoli nella quale il potere era rappresentato dalla DC mentre, all’epoca, la finanza meneghina era dominata dalla “Compagnia dei liberi muratori” (che, per chi non lo sapesse, è una loggia massonica).
Il nome di Ventriglia, giovane brillante, giunse all’orecchio di Pietro Campilli ministro dc per il Mezzogiorno artefice, con De Gasperi, del prestito statunitense di 100 milioni di dollari, che lo portò a Roma come suo braccio destro. Nei primi anni sessanta passò al Tesoro con Emilio Colombo. Nel ’66 tornò al Banco di Napoli come direttore generale, ma già nel ’69 fu richiamato a Roma per risanare il Banco di Roma (istituto dell’IRI ed azionista e finanziatore di Mediobanca). A Roma restò fino al 1975 risanando e rafforzando il bilancio patrimoniale del Banco di Roma. E, sempre a Roma, incontrò Sindona, figura di spicco del potere, abile a spostare oltre confine i soldi del Vaticano, il quale coinvolse lui e la Banca di Roma nella vicenda. Quando la Banca Privata di Sindona finì in bancarotta, quest’ultimo accusò Ventrigla che, convocato dai giudici, ne uscì pulito. Si vociferò che per farla franca avesse utilizzato la famosa “lista dei 500” ovvero i nomi di coloro che avevano esportato denaro grazie a Sindona. Tuttavia da quel momento in poi “Re Ferdinando” ebbe tanti nemici. Uno di questi, il suo nemico giurato Ugo La Malfa, a sua volta amico di Enrico Cuccia, fu l’artefice della sua mancata nomina alla presidenza della Banca d’Italia.
Lo scontro tra le due finanze, del nord e del sud, massonica l’una e cattolica l’altra, costituì lo sfondo sul quale si determinò il fallimento del Banco di Napoli allo scopo di risanare BNL e INA. Uno scontro che attraversa la storia di questo paese fin dalla sua unificazione. Intanto Ventriglia tornò al Tesoro e fece in tempo a salvare l’Italia attraverso il Fondo Monetario nel bel mezzo delle due crisi petrolifere. Poi nel 1977 diventò presidente dell’ISVEIMER e dal 1983, appunto, direttore generale del Banco di Napoli. Se è vero che durante la sua presidenza i giochi si compirono, è altrettanto vero che la sua gestione condusse il Banco di Napoli a diventare molto influente nel quadro economico-bancario italiano e a dare terribilmente fastidio alle banche lombardo-piemontesi arrivando a contare oltre 700 sportelli in tutta Italia; centro-nord compreso, dove era la banca preferita dagli emigrati. Di contro le banche centro-settentrionali al sud arrancavano. Poi, però, il sistema di potere iniziò a sfaldarsi. Le correnti della DC, il PSI e il PCI, (che a Napoli dal 1975 è partito al potere), tutti attinsero alla Banca di Ventriglia che per tappare i buchi delle spartizioni, sopravalutò le attività e svalutò le passività (manovre lecite intendiamoci) per spalmare le perdite su più anni. Tuttavia riuscì solo a rimandare il duello finale: nel 1993 venne a mancare la Cassa per il Mezzogiorno mettendo in crisi le piccole e medie imprese del Sud che per andare avanti si erano indebitate contando sulla garanzia pubblica. Due le alternative: o si rinegoziava il prestito o non lo si restituiva. Intanto due anni prima la legge Amato aveva trasformato le banche in s.p.a. rendendo di fatto possibile le scalate da parte della finanza più aggressiva, mentre Basilea I aveva preparato il terreno, nel 1988, sotto forma di garanzia sul capitale minimo delle banche.
Ventriglia, consumato da un cancro, che lo porterà alla morte nel 1994 a 67 anni, vedeva la sua Banca sfuggirgli di mano: gli venne notificato un avviso di garanzia e gli ispettori della Banca d’Italia iniziarono a scavare nei libri. Tuttavia fu lo stesso Ventriglia a suggerire la via d’uscita attraverso la cosiddetta legge Sindona alla quale lui e Carli avevano lavorato ai tempi del crac della Banca Privata. La Banca d’Italia erogò un prestito al Banco di Napoli all’1% per un importo pari ai titoli di stato concessi in garanzia e il Banco di Napoli creò la SGA (Società per la Gestione di Attività) come società di veicolo (oggi chiamate badbanks) che, con il prestito ottenuto, a sua volta acquistò tutti i crediti a rischio (all’epoca 17.400 miliardi di lire) al prezzo scontato di 12.442 miliardi di lire. Il finanziamento girato dal Banco a SGA al tasso di mercato del 9,6%, rese, in questo modo, anche benefici sul conto economico. Manovra che annullò il debito della SGA già nel 2003 quando la società restituì alla Banca d’Italia 3 miliardi e 583 milioni di euro!
Il Tesoro ovviamente fiutò l’affare e 13 anni dopo (2016, giorni nostri) SGA fu acquistata per 600 mila euro per essere utilizzata nel passaggio delle banche venete (Popolare di Vicenza e Veneto Banca) a Intesa attraverso il “metodo Ventriglia”! lo stesso Ventriglia, prima, e Minervini, poi, si batterono per il riconoscimento del valore di avviamento del “nuovo” Banco di Napoli al fine di scongiurarne l’azzeramento del capitale sociale che avrebbe causato l’esautorazione della Fondazione Banco di Napoli (azionista di maggioranza) dal controllo sulla banca e ingenti danni per gli azionisti di minoranza. Il Tesoro fece orecchie da mercante (cosa che non ha fatto, per esempio, con MPS il cui capitale sociale è stato pagato dai contribuenti e SGA!) e il decreto legge Dini di fatto ricapitalizzò l’Istituto per 2283 miliardi di lire azzerandone il capitale sociale. Lo stato acquistò il Banco di Napoli per poi rivenderlo al miglior offerente! E chi era il miglior offerente a quei tempi? Logica avrebbe voluto una banca in salute, capace di valorizzare un potenziale tanto alto e per di più ripulito dai debiti! Non andò così. Lo stato vendette il Banco di Napoli nel 1997 a BNL-INA (due soggetti a partecipazione pubblica, dai quali però lo stato si stava ritirando) per 60 miliardi di lire: una bazzecola!
Alle proteste di impiegati e sindacati, la risposta dell’allora ministro del Tesoro Ciampi fu: “Il prezzo è stato ritenuto congruo dall’advisor Rothschild”. Chiuso il discorso! Intanto due anni dopo il Banco di Napoli era di nuovo sul mercato, ma questa volta per 6000 mila miliardi e nonostante i risultati più che deludenti ottenuti nel biennio. Manovra che fece realizzare a BNL-INA una plusvalenza esorbitante. Così mentre SGA recuperava il 94% dei crediti, restituendoli allo stato, il SanPaolo IMI, che acquistò il Banco di Napoli, salvò indirettamente BNL-INA con la regia del Tesoro e della Banca d’Italia. Il Banco di Napoli fu solo la pedina di scambio per il risanamento!
Domanda retorica: chi ci guadagnò? Successivamente, nel 2007, SanPaolo IMI si fuse con Intesa e gli sportelli del Banco di Napoli al nord e al centro passarono sotto le insegne della capogruppo, riducendosi, nel Mezzogiorno, a soli 168 operanti. Tuttavia dal 2007 il Banco di Napoli mantenne la sua autonomia decisionale che gli consentiva di gestire autonomamente il suo capitale nonché di decidere la sua politica economica, finanziando principalmente imprese, capitali e imprenditori meridionali, al fine di perseguire lo sviluppo economico e industriale del Mezzogiorno.
Dal novembre 2018 tutto questo non esiste più. L’assorbimento in Banca Intesa, ha comportato linee decisionali uniche che per forza di cose dirottano i capitali del Mezzogiorno a finanziare e capitalizzare i target che Intesa-SanPaolo ritiene fondamentali per il suo business. Intuite da voi stessi le logiche conseguenze. L’operazione, mascherata con finalità di razionalizzazione delle attività secondo le direttive di MIFID 2, altro non è stato che l’ennesimo assalto a Fort Knox che il Sud ha dovuto subire per mano di ladri e mariuoli settentrionali che affondano le mani nelle tasche di noi altri. La direttiva europea MIFID 2, infatti, prevede due importanti novità a “difesa” dei risparmiatori/investitori: la product governance e la product intervention. Per non tediarvi con tecnicismi, tenterò di essere pragmatico.
La prima prevede che quando si costituisce un prodotto da distribuire al risparmiatore, la società produttrice debba definire un target positivo e uno negativo ovvero definire i soggetti per i quali i prodotti sono adeguati e per i quali i prodotti vanno sempre esclusi. Questo implica che la figura del risparmiatore sia pressoché uniformata o standardizzata, altrimenti la banca sarebbe costretta a definire più pacchetti o prodotti per diverse tipologie di risparmiatori.
E questa peculiare caratteristica del risparmio all’italiana, all’Europa dell’alta finanza non piace soprattutto perché rivolgersi ai piccoli risparmiatori, che per inciso sono quelli che hanno portato avanti l’Italia fino a ieri, significa correre rischi maggiori (insolvenze, ritardi nei pagamenti, perdite di capitali etc.). Ecco, quindi, che la product governance fa una selezione a monte. Implicitamente tutti i risparmiatori che hanno un conto aperto, in questo caso al Banco di Napoli, e che non sono ritenuti idonei da Intesa-SanPaolo non potranno beneficiare di tipologie di investimento, prestito o finanziamento ritenute a loro non idonee e i loro soldi saranno solo un mero deposito infruttifero alla mercé della banca.
La product intervention, invece, vieterà o limiterà la possibilità agli investitori, piccoli e grandi, di vendere depositi finanziari o strutturati anche prima della commercializzazione. E la domanda è: quanti di questi depositi riguarderanno le possibilità finanziarie dei risparmiatori meridionali se Intesa-SanPaolo ha eliminato il Banco di Napoli dal Mezzogiorno?
Si è voluto, dunque, nel 2018 portare alla corte nordica una banca meridionale e per il meridione, asservendola alle logiche della sua finanza e della sua industria che niente hanno a che fare con il nostro tessuto sociale. Ancora una volta la miopia delle classi dirigenti, non ha consentito di vedere e sfruttare le potenzialità che il Sud offre; non ha consentito di valorizzare il territorio anzi lo ha definitivamente depredato della sua ricchezza utilizzandola per favorire l’alta finanza totalmente estranea alle logiche di piccolo mercato.
*M24A ET - Campania
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