di Roberto Cantoni *
Pare siano tornati di moda i radical chic. Era un po’ che non li sentivamo più nominare. Tipicamente impiegato nelle narrative di destra per squalificare i promotori di iniziative di sinistra, l’epiteto è stato ripreso ieri dal ministro alla transizione ecologica Cingolani durante un incontro di Italia Viva, per indicare chi si oppone al nucleare in maniera, secondo il ministro, ‘ideologica’. Addirittura, Cingolani si è spinto oltre, sostenendo che “loro [gli ambientalisti radical chic] sono peggio della catastrofe climatica verso la quale andiamo sparati”. Il problema, per il ministro, è meno il sistema di produzione economica fondato sul sovrasfruttamento delle risorse del pianeta e sul rilascio nell’atmosfera di milioni di tonnellate di CO2 e altri gas serra, che chi si oppone al nucleare.
Tanto per cominciare, giova ricordare due punti. Il primo è che uno dei settori più inquinanti attualmente esistenti è quello della difesa e dell’aerospazio, che Cingolani conosce bene, essendo stato responsabile innovazione della società Leonardo. Se gli stesse a cuore il problema della transizione ecologica, sarebbe auspicabile in primo luogo mettere un freno a quel settore lì. Il secondo punto è che italiane e italiani hanno votato nel 2011 per un referendum contro la soluzione nucleare, e il 94% dei votanti (il 55% degli aventi diritto) votò NO. Tra l’altro, fu uno dei pochissimi referendum recenti a raggiungere il quorum. E una decisione dei cittadini non si cancella con un colpo di spugna né per decisione di un ministro.
Sarebbe fin troppo facile, però, accanirsi su una frase e trascurare il contenuto della proposta di Cingolani. Vediamo, allora, cosa propone il Ministro. “Andate a guardare i numeri”, “Non prendete posizioni ideologiche”, dice. Innanzi tutto, occorre sfatare il mito della tecnologia apolitica: una tecnologia non è né buona né cattiva, ma non è neanche neutra (è la cosiddetta ‘prima legge di Kranzberg’). Le scelte tecnologiche sono sempre, almeno in parte, politicamente motivate, e dichiarare che una preferenza per una tecnologia piuttosto che per un’altra sia qualcosa che esuli dalle ideologie politiche è ingenuità o malafede. Messo in chiaro questo punto, Cingolani sostiene che “se, a un certo momento si verifica che i chili di rifiuto radioattivo sono pochissimi, la sicurezza elevata e il costo basso è da folli non considerare questa tecnologia”. Bene. Chiarisco innanzi tutto che non siamo neanche lontanamente in questa situazione, e che quindi parlarne non soltanto è un pessimo esercizio di comunicazione del rischio ma è anche dannoso politicamente. Ma ammettiamo per un momento che, in un giorno lontano, si possano verificare tutte le condizioni preconizzate da Cingolani. Sarebbe allora un ritorno al nucleare auspicabile? No. Per diverse ragioni. Partiamo, però, dai dati e dalla realtà dell’industria nucleare oggi.
Ogni anno, una serie di fondazioni e ONG pubblicano un rapporto sullo stato di salute del nucleare. Il rapporto, noto come Rapporto sullo stato dell’industria nucleare mondiale (WNISR), è considerato un riferimento in materia, insieme alle pubblicazioni dell’Agenzia internazionale dell’energia atomica (AIEA). Secondo il rapporto WNISR, economicamente, il nucleare oggi sarebbe una scelta disastrosa. In Europa occidentale e negli Stati Uniti, non solo il tasso di ‘pensionamento’ delle centrali nucleari sta aumentando, ma i pochi progetti di nuova costruzione hanno avuto superamenti catastrofici dei costi e slittamenti di programma (di solito, si contano cinque anni per la costruzione, ma si arriva spesso a nove, almeno in Cina, dove la costruzione procede spedita). Inoltre, due delle maggiori ditte costruttrici del mondo, la statunitense Westinghouse e la francese Areva, sono andate recentemente in bancarotta proprio a causa di questi costi aggiuntivi. In Giappone, quasi un decennio dopo l'incidente di Fukushima, le compagnie nucleari continuano ad avere problemi per soddisfare i nuovi requisiti normativi – e in genere versano più di un miliardo di dollari in aggiornamenti di sicurezza per ogni reattore. Nel complesso, in termini di costo dell'energia, il nuovo nucleare sta chiaramente perdendo rispetto all'eolico e al fotovoltaico, e gli investimenti nel nuovo nucleare sono circa un decimo di quelli nell'eolico e nel fotovoltaico. Quanto ai costi, l'analisi annuale del costo livellato dell'energia (LCOE) per gli Stati Uniti intrapresa da Lazard alla fine del 2019 e riportata dal WNISR suggerisce che il costo del solare fotovoltaico è in media 40 dollari per megawattora (MWh), mentre l'eolico sulla terraferma è 41 dollari/MWh, e il nucleare è 155 dollari. Negli ultimi cinque anni, il LCOE del nucleare è aumentato di oltre il 50%, mentre le energie rinnovabili sono diventate le più economiche di qualsiasi tipo di produzione di energia. Ciò che è importante in queste tendenze è che i costi delle rinnovabili continuano a scendere a causa dei miglioramenti incrementali di produzione e installazione, mentre il nucleare, nonostante oltre mezzo secolo di esperienza industriale, continua ad aumentare i suoi costi.
Com’è la situazione dell’industria nucleare nell’UE? La percentuale di elettricità prodotta da nucleare sta calando anno dopo anno, complice anche la scelta della Germania di uscire dal nucleare in seguito all’incidente di Fukushima. Si aggira oggi sul 26% ma, di quel 26%, il 52% è rappresentato dalla sola Francia, mentre nel secondo paese per produzione nucleare, la Germania, il tasso è del 9.8%. Ricordiamo che l’uscita della Germania dal nucleare ha comportato, nel breve termine, un aumento dell’uso del carbone autoctono, ma che quest’effetto è rientrato nel 2013. Ora, se la Germania, il cui apparato industriale è decisamente più energivoro di quello italiano, riesce a fare a meno del nucleare, è singolare pensare che l’Italia non possa farne a meno.
Perfino in Francia, il paese europeo nucleare per eccellenza, si sta facendo sempre più forte la voce di chi vuole ridurre la parte del nucleare: nel 2015 è stata approvata la legge sulla transizione energetica, che dovrà portare al 50% questa percentuale entro il 2025, dal 70% scarso di oggi (obiettivo che poi Macron ha rinviato al 2035). I paesi che a oggi stanno costruendo centrali in UE sono 4 (due in Slovacchia, uno in Finlandia e uno in Francia. Tanto la centrale francese che quella finlandese, entrambe di tecnologia francese, sono state caratterizzate da ritardi mostruosi e da numerosi incidenti tecnici che ne hanno rinviato più volte l’apertura. Praticamente, in Europa, in nucleare è un’industria senescente e moribonda. A livello mondiale, secondo i calcoli del WNISR, per mantenere l'industria allo status quo, bisognerebbe costruire circa 135 reattori prima del 2030. Le tendenze attuali non vanno neanche lontanamente in questa direzione. A livello globale, se non fosse per la Cina, l’industria nucleare sarebbe in condizioni critiche: invece, tenendo conto della Cina, la situazione è stagnante.
Se poi aggiungiamo che i costi di decommissionamento delle centrali stanno aumentando vertiginosamente, e che l’Italia, dal 1987, anno del primo referendum, non è neanche ancora stata capace di decommissionare i pochissimi reattori che aveva, si può facilmente immaginare l’impatto di lunghissimo termine delle centrali nucleari non solo sul territorio, ma anche sulle casse dello Stato.
A proposito del decommissionamento, entrano poi in gioco considerazioni più generali. Il ciclo dell’uranio non comincia quando si ‘accende’ una centrale e non finisce quando si ‘spegne’. L’uranio va estratto – e i maggiori paesi produttori, tolta l’Australia, non brillano per pedigree democratico -, processato e trasformato in varie sostanze, poi arricchito in specifiche infrastrutture, e poi usato. Una volta terminata la sua vita attiva, l’uranio arricchito avrà prodotto, tra l’altro, plutonio. Questo, una volta riprocessato, può essere usato per la costruzione di armi nucleari, contribuendo ad aggravare il problema della proliferazione nucleare. Tutte queste attività, per inciso, emettono CO2 e altri gas serra, di cui bisogna tenere conto nel bilancio finale. Al di là del plutonio, ci sono limiti infrastrutturali esterni che vanno presi in considerazione: negli ultimi decenni abbiamo assistito alla moltiplicazione di eventi climatici estremi, conseguenza dell’opera umana sul pianeta. Terremoti, inondazioni, incendi di vaste proporzioni, uragani, sono sempre più all’ordine del giorno. Le centrali nucleari non sono più sensibili a questi eventi di altre infrastrutture energetiche, ma le conseguenze di un incidente nucleare sono infinitamente più gravi di quelle a un impianto fotovoltaico. E tralascio il problema, acutissimo, delle scorie radioattive e di dove situarle: basti pensare alla rivolta di Scanzano Ionico del 2003, o anche, più recentemente alla militarizzazione della TAP e dei cantieri della TAV, per avere un’idea di come solitamente lo stato italiano gestisca questo tipo di faccende.
Che dire delle emissioni? L'energia nucleare è spesso promossa come un sostituto quasi privo di carbonio dell'elettricità prodotta dal carbone e dal gas naturale, e quindi come parte essenziale della soluzione climatica. Tuttavia, ogni affermazione sul fatto che non espandere o non sostenere l'energia nucleare renda le soluzioni climatiche ‘drasticamente più difficili e più costose’ deve dipendere dal confronto dell'opzione nucleare con altre opzioni. Le centrali nucleari vengono difese prestando attenzione al carbonio ma non al costo. Eppure, per proteggere il clima, dobbiamo abbattere la maggior parte del carbonio al minor costo - e nel minor tempo - quindi dobbiamo prestare attenzione al carbonio, al costo e al tempo, e non al solo carbonio. Più la protezione del clima diventa urgente, più è vitale ottenere le maggiori riduzioni di gas serra per dollaro e per anno. Essere virtualmente senza carbonio non è sufficiente. Soldi e tempo limitati richiedono anche efficacia climatica. Il nucleare di nuova costruzione costa molte volte di più per kilowattora (kWh), quindi, per così dire, le opzioni non nucleari risparmiano più carbonio per euro. Infine, uno studio del 2020, condotto su 123 paesi per 25 anni, ha esaminato sistematicamente le emissioni di paesi che usano energia nucleare e rinnovabili, scoprendo che gli impianti nucleari nazionali su larga scala non tendono ad associarsi a emissioni di carbonio significativamente più basse, mentre le rinnovabili sì.
Ultimo fattore ma non meno importante, il nucleare è un'energia le cui modalità di gestione sono notoriamente antidemocratiche. Le decisioni si basano sulla gestione limitata a un pool di tecnocrati nominati dal governo di turno e sull’estromissione della quasi totalità della cittadinanza dalla presa di decisioni; sulla segretezza (spesso anche per motivi militari). La maggior parte delle lotte sostenute dai cittadini francesi all’epoca dell’espansione nucleare, negli anni ’70 del secolo scorso, sono state legate precisamente a quest’aspetto di esautorazione della cittadinanza e hanno portato alla formazione di diverse strutture di controllo. In Italia, però, siamo molto lontani da una situazione simile, e la modalità di gestione di infrastrutture contestate (la TAP su tutte) è rivelatrice di ciò che le alte sfere tecniche pensano del ruolo dei cittadini nei processi decisionali in materie energetiche. Non a caso, il nucleare continuerebbe una tradizione centralizzatrice: una tradizione che rende lo Stato signore e padrone, e che va in senso diametralmente opposto alle tendenze decentralizzatrici oggi in atto. Tali tendenze, al contrario, permettono a comunità di cittadini di associarsi e decidere autonomamente su quali e quante fonti di energia usare e, spesso, anche di rivenderle ai gestori di rete per ricavarne un profitto. In conclusione, piuttosto che pensare a risvegliare lo zombie nucleare, sarebbe il caso di prendersi cura di modalità energetiche che sono ormai arrivate alla loro piena maturità.
*Ricercatore in politiche energetiche, Science Policy Research Unit, Università del Sussex
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