Di Mariagrazia Dilillo
Contenimento del contagio. Tre parole che da qualche settimana ci vengono ripetute fino allo sfinimento, seguite da altre tre: restate a casa. Casa. Per una qualsiasi persona “casa” è dove vive, dove ha una famiglia, degli amici, probabilmente dove è cresciuta e ha studiato, dove risiede e lavora. Normalmente, è sufficiente che qualcuna di queste condizioni si verifichi perché ci si senta “a casa”. Ma se accade qualcosa di terribile, di imprevisto, e diventa necessario restare a casa, allora “casa” dov’è?
Per chi è nato al Nord e vive al Nord, la sua casa è lì, dov’è. All’interno di un’area di qualche decina di chilometri quadrati molto probabilmente è nato, cresciuto, ha studiato, lavora e ha messo su famiglia. Lì c’è tutta la sua vita.
Per chi è nato al Sud e vive al Sud, probabilmente vale lo stesso ragionamento però, quasi certamente, la sua “casa” ha perso qualcuno che è andato via, lontano, e “casa” per chi è rimasto e per chi è partito assume anche un altro significato: luogo del ritorno.
Ma per chi è nato al Sud e vive al Nord, perché ci è emigrato, perché a “casa” gli hanno tolto il futuro, perché al Nord studia o lavora o si cura, dov’è “casa”? Dove si sente al sicuro, dove non è solo.
C’era da aspettarselo che molte persone che al Nord non hanno ancora radici, che non sono ancora del tutto in grado di sostenersi economicamente, che studiano o lavorano come precari, che nella difficoltà si sono ritrovate sole o magari psicologicamente impreparate, sarebbero “tornate a casa”, esponendo al rischio di contagio i propri familiari. Era assolutamente prevedibile, perché gli emigrati sono milioni e che una parte non sarebbe stata in grado di affrontare, economicamente o psicologicamente, una situazione tanto difficile era da mettere in conto. E’ proprio in queste situazioni che devono intervenire le Istituzioni. Ma chi decide in Italia?
Nonostante fosse chiaro ormai a tutti il rischio di espansione del contagio legato agli spostamenti di persone dalle aree di maggiore rischio verso il resto del paese, fino all’8 Marzo abbiamo assistito al tira e molla fra Stato e Regioni (e non solo, ci si è messa di mezzo anche Confindustria) circa le misure restrittive da adottare, che sfociava puntualmente in un quasi nulla di fatto. Quotidianamente venivano consentiti migliaia di spostamenti interregionali, non solo per validi motivi e non solo da Nord verso Sud: si viaggiava attraverso tutta l’Italia per lavoro, per studio, per turismo per raggiungere le case di villeggiatura (in Sardegna e Liguria, ad esempio, forse per paura di restare “intrappolati” in scomodi appartamenti di città?), addirittura per assistere a qualche partita di calcio. Non c’è stata regione che non abbia detto la sua con un puzzle di provvedimenti impossibile da ricomporre. Ricordate il caso dell’ordinanza di Ischia che “respingeva” i turisti lombardo-veneti, poi annullata dal prefetto? I musei aperti a Palermo chiusi nuovamente dopo una settimana? Gli appelli per continuare a visitare le città di Venezia e Firenze? La riapertura dell’acquario di Genova a fine Febbraio? L’annuncio della imminente riapertura delle scuole e delle chiese in Piemonte dato il 28 Febbraio? I proclami lombardi di città che non si fermano? L’assalto alle piste da sci in Trentino? La partita Lecce-Atalanta, con la trasferta in puglia dei Bergamaschi sottoposti al termo-scanner all’entrata dello stadio? Tutti provvedimenti discussi ma tollerati. Finché nel fine settimana del 6 e 7 Marzo e nella notte dell’8 a migliaia sono partiti dal Nord per tornare a “casa” al Sud e allora si è assistito ad una vera gogna mediatica, con uomini e donne accusati pubblicamente e ripetutamente di ignoranza, irresponsabilità, codardia, “mammismo” e Dio solo sa cos’altro. Contemporaneamente, molte persone sono rientrate dalla Lombardia in Emilia (dove vivo), Toscana, Marche, Liguria e altre regioni centro-settentrionali ma di queste non si è parlato, per loro nessuna accusa. Eppure, dalla Lombardia il contagio si era già esteso in “qualche modo” in tutta Italia, inclusi il centro e il resto del Nord (alle 18 del 29 Febbraio si contavano 3420 positivi in Lombardia, 1010 in Emilia Romagna, 207 in Piemonte, 543 in Veneto, 113 in Toscana, 207 nelle Marche, 51 in Liguria, 76 nel Lazio, 61 in Campania, 26 in Puglia, 23 in Trentino, 35 in Sicilia, 42 in Friuli Venezia Giulia, 11 in Abruzzo, 24 in Umbria, 5 in Sardegna, 4 in Calabria, 8 in Val d’Aosta, 3 in Basilicata, 14 in Molise): non importa, inutile tentare di accendere i riflettori sulla questione perché il dito è già puntato sempre nella stessa direzione: a Sud. Per quale ragione? Perché è lì che vanno i terroni che “tornano da mammà” (cit.) e perché “la sanità al Sud fa schifo” (cit.) e dopo “ce li ritroveremo tutti qui, nei nostri ospedali, anche con le loro mammà” (cit.).
In modo assolutamente coerente con tali accadimenti, alcuni personaggi pubblici hanno maldestramente cercato di nascondere quanto “alleggerire” di qualche decina di migliaia di persone potenzialmente infettabili o infettate alcuni epicentri del contagio, dove la sanità pubblica era già allo stremo, potesse tornare utile.
Senza entrare nel merito dei motivi, più volte denunciati da M24A, per i quali la sanità lombarda è al collasso e la sanità del Sud è in grave difficoltà (“fa schifo” non è il termine corretto e molte realtà territoriali di eccellenza ne sono la prova, come l’ospedale Cotugno di Napoli, unico ospedale per ricoverati CoVid-19 in Italia con zero contagi tra il personale medico, in stretta collaborazione con l’Istituto Pascale dove il Dott. Ascierto e la sua equipe hanno sperimentato e applicato un nuovo protocollo di cura per la polmonite interstiziale Coronavirus), probabilmente si sarebbero potuti “salvare capre e cavoli” semplicemente evitando la prevedibile e incontrollata fuga di massa scatenata dalla prematura (casuale? Opportuna?) pubblicazione di un decreto non ancora approvato, organizzando efficaci misure di contenimento. Quali?
Dovendo escludere a priori la misura più ovvia e più efficace (precedentemente adottata con successo da Cina e Corea che sono riuscite in brevissimo tempo a contenere l’epidemia e limitare i danni) perché l’isolamento territoriale è stato immediatamente e ripetutamente rifiutato dalla Regione Lombardia (e non solo) fino alla data in questione, per contenere i danni di una contro-migrazione incontrollata sarebbe stato sufficiente annunciare e decretare una regolamentazione degli spostamenti, specialmente di quelli più massicci verso Sud: si sarebbe potuto rientrare nella propria regione di provenienza previa richiesta mediante apposito modulo con dichiarazione delle generalità di tutti i richiedenti, del luogo di partenza, del luogo di arrivo , del Comune di permanenza con indicazione esatta del domicilio. Questa procedura avrebbe consentito tutte le verifiche necessarie e si sarebbe ottenuto più di un risultato utile: riduzione del potenziale carico per la sanità lombardo-veneta, riduzione degli spostamenti non tracciati, e non solo verso Sud, che avrebbe consentito di individuare più velocemente le persone da sottoporre a quarantena e i luoghi più idonei in cui isolarle, evitando di lasciare tali procedure al senso di responsabilità individuale, e contenimento del panico che invece, a causa della mancanza di una corretta comunicazione tra le Istituzioni e i cittadini e di scelte responsabili, ha dilagato incontrollato nel fine settimana precedente la pubblicazione del decreto del 8 Marzo, spingendo molti ad una vera e propria “fuga”.
Non tutti riescono a pensare razionalmente di fronte ad un problema: c’è chi lo ignora, chi si lascia prendere dal panico, chi lo schiva con indolenza, chi lo sottovaluta. Criminalizzare le persone per i loro comportamenti non porta ad alcun risultato utile. E’ invece compito delle Istituzioni assumere decisioni, a volte difficili e impopolari, per il bene comune. Questo non è accaduto, a vari livelli e su diversi fronti, poiché è mancato coraggio e senso di responsabilità e soprattutto una “linea” comune tra lo Stato e le Regioni: anche per questo l’epidemia è dilagata ovunque.
Chi teme che poiché “la sanità al Sud fa schifo” tra poco “ce li ritroveremo tutti qui, nei nostri ospedali, con le loro mammà” dimentica che “qui” il problema c’è già, che “qui” è nato e “da qui” si è diffuso (non solo in Italia), a causa dell’irresponsabilità, dell’ingordigia, del lassismo, dell’ignoranza, della presunzione, dell’egoismo e del protagonismo di politici ondivaghi e ipocriti, industriali avidi, titolari di azienda miopi e impreparati, cittadini indolenti, troppo spesso disorientati da informazioni ambigue e false. E dimentica, o vuole dimenticare, che al momento sono i malati del Nord ad essere curati al Sud e i medici del Sud a correre in aiuto degli ospedali del Nord.
Ma bisogna riconoscere che quei timori alimentati da ignoranza e pregiudizi, contengono l’utile, embrionale percezione che continuare a danneggiare il Sud implica letteralmente suicidarsi e fare a pezzi l’Italia.
Modificare l’articolo V della Costituzione, conferendo più autonomia e poteri alle Regioni, si è rivelato un vero e proprio boomerang per chi l’aveva voluto per drenare capitali dalla parte più povera del Paese e convogliarli a quella più ricca. Il vertiginoso incremento dell’iniquità della distribuzione delle risorse tra Nord e Sud che ne è conseguito ha provocato una enorme arretratezza nello sviluppo delle regioni meridionali e contemporaneamente un incremento vertiginoso della corruzione e delle infiltrazioni mafiose in quelle centro-settentrionali, con enormi sprechi di denaro pubblico in opere inutili e in privatizzazioni sfrenate e la penalizzazione del settore pubblico. L’imprevedibilità e la gravità degli eventi degli ultimi mesi ha impietosamente evidenziato le tante criticità del nuovo assetto italiano e in particolare ha mostrato tutte le inadeguatezze della sanità regionalizzata, anche in aree di “eccellenza”. E’ necessario ripensare un modello di paese più equo e più giusto, che da Sud a Nord proceda alla stessa velocità e in cui lo Stato (possibilmente credibile e onesto) assuma nuovamente un ruolo centrale.
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