di Roberto Cantoni
Il meridionalismo fa più bene o male alle istanze meridionaliste? La domanda può sembrare senza senso, ma la riflessione nasce da una critica spesso formulata da parte di pensatori e pensatrici di sinistra a movimenti come il nostro che, seppur teso all’equità territoriale in tutto il territorio italiano, nasce come geograficamente ancorato a una realtà macroregionale ben precisa. Semplificando all’osso, per i pensatori di sinistra di estrazione marxista, la cosiddetta politica “della singola questione”, cioè quella che si concentra su un tema in particolare – sia questo inerente al genere (movimenti femministi), all’etnia (movimenti antirazzisti), al territorio (movimenti regionalisti), all’ecologia (movimenti ambientalisti), alla sessualità (movimenti anti-omofobia) – fa perdere di vista la lotta principale, che è quella di classe, che vede opposti gli interessi del capitale a quelli dei lavoratori, di qualunque etnia, provenienza e genere siano. Le altre lotte possono essere sussunte in quella di classe.
Quella della politica della singola questione è una miopia, continuano i critici, che non fa che indebolire la classe degli sfruttati, dividendoli in sottoclassi antagoniste che potrebbero invece associarsi per combattere gli interessi del capitale. E mentre la sinistra si frammenta sulle singole questioni, scindendosi fino all’inverosimile (celebre la satira di Guzzanti-Bertinotti sulla ‘viralità’ della nuova sinistra), la destra, che per sua natura è meno pluralista e più monolitica, se non si consolida, almeno non si frammenta, e di conseguenza risulta percettivamente più coesa, più convincente, e, in breve, vince le elezioni in mezzo mondo. Che poi è la tendenza generale degli ultimi anni. È la tesi, per esempio, del geografo marxista statunitense David Harvey.
La domanda che Harvey ci potrebbe porre è quindi: e se calcando la mano sul meridionalismo ci perdessimo dei possibili alleati politici? Alleati che potremmo trovare, per esempio, in movimenti e partiti cui sta a cuore, come a noi, la questione dell’equità territoriale, ma che non ne fanno il principale cavallo di battaglia della loro linea politica? Non è, insomma, che concentrarsi sugli sfruttati del Meridione ci tagli fuori dalla possibilità di ricevere il sostegno degli sfruttati di altri territori? Non è una tesi nuova. Gramsci sosteneva, per esempio, che fosse possibile un’alleanza tra contadini nel Sud e operai del Nord, in nome di una società socialista. Ma erano gli anni Venti del secolo scorso. Cent’anni dopo, possiamo dire che quest’alleanza non si è verificata: in parte è stata una conseguenza della strategia di quella che Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani negli anni ’70 chiamarono ‘razza padrona’: mettere gli sfruttati gli uni contro gli altri. In parte, è stato perché le premesse su cui si basava l’idea gramsciana in questo caso erano deboli. Troppo lontani gli interessi immediati di contadini e operai, troppo diverse le loro mentalità (anche se va riconosciuto che il figlio del contadino meridionale emigrava diventando operaio al Nord, quindi i confini tra i due gruppi non sono così netti come si potrebbe credere).
Contadini meridionali troppo conservatori, quindi. Ironico, sei si pensa che il brigantaggio, stroncato dall’esercito piemontese, nacque proprio come lotta di classe. Ma quelle velleità di lotta erano state appunto annullate nel post-Conquista, o erano confluite in altre istanze rivendicative, non di classe ma di potere, ben radicate localmente. L’occasione persa di una possibile alleanza contadini-operai, e la presa d’atto del conservatorismo politico della classe agricola meridionale, portarono gradualmente la sinistra meridionale a distaccarsi dai suoi sfruttati, e ad assumere la narrativa operaista settentrionale come dominante. La rivoluzione si sarebbe fatta a partire dalle fabbriche, non dalle campagne. Questa narrativa si è poi espansa nei decenni, includendo pian piano istanze anticolonialiste, antisessiste e, a volte, anche antispeciste (o ecosistemiche). Ma, con buona pace di Gramsci, Salvemini e compagnia, quello della subalternità politica del Sud è rimasto un tabù, a sinistra, e lo è tuttora. In alcuni ambienti della sinistra massimalista meridionale riesce più accettabile battersi per le lotte basche, palestinesi e curde, che per la fine della subalternità del Sud al Centro-Nord o, per citare Nicola Zitara, del colonialismo interno italiano.
Ma torniamo al punto: si perde o si guadagna, in termini strategici, puntando su una politica che abbia come cardine il Meridione? Dipende da come si struttura il discorso politico. Finita l’epoca dell’utopia gramsciana, occorre ricordare due punti: il primo sono i tantissimi meridionali che vivono al Centro-Nord; il secondo è che l’iniquità territoriale c’è anche in quelle zone. Se il Sud è la periferia d’Italia, laddove il Nord ne è il centro, il Nord rurale è la periferia del Nord centrale. Di conseguenza, le nostre rivendicazioni devono essere inclusive, e avere un obiettivo di ampia portata, il più universale possibile. È una scelta etico-politica, che il nostro movimento ha compiuto puntando sull’equità territoriale come obiettivo primario, e coniugando così gli interessi del Sud, territorio che subisce una forte iniquità territoriale, con quelli di altre zone del territorio italiano. “Ovunque qualcuno sia discriminato, lì c'è lavoro per M24A-ET. Non è una questione geografica, ma pratica (e morale)”, riporta la pagina di presentazione del Movimento. Il posizionamento è chiaro. La questione non è più, quindi, soltanto quella del Meridione, ma si tratta di una rivendicazione più ampia, potenzialmente in grado di coinvolgere anche realtà non meridionali. Una rivendicazione che però non può e non deve prescindere dalla storia politica del territorio italiano.
Leave a Reply