Esso appartiene a tutti, tranne che a loro stesse.
La moda del momento, l’orientamento religioso, la morale del suo ambiente le dicono come lo deve vestire, o svestire, se può essere grasso oppure magro, capelli lunghi oppure corti, lisci o ricci, ma solitamente al contrario di quello che spontaneamente sono, per cui le donne ricce se li allisciano e viceversa. Gli stilisti poi sono prevalentemente di sesso maschile, che delle donne hanno solo fantasie e idee preconcette e le ‘interpretano’ in conseguenza di queste; i religiosi sono nuovamente uomini e discettano sul corpo delle donne per dire se può avere rapporti sessuali e quando, se deve avere o non avere figli e anche quello quando, ma anche quanti, senza nessuna obiezione o peggio che mai, opposizione. È mica suo il suo corpo? Negli anni ‘60 del ‘900 la generazione a cui appartengo si è ribellata ed ha rivendicato la proprietà non proprio di tutto il corpo ma di un organo: l’utero, deputato a rappresentare la donna tutta intera. Si urlava per le strade durante i cortei “L’utero è mio e lo gestisco io” per affermare il diritto di gestire la propria sessualità ed il rischio di gravidanze non volute ricorrendo all’aborto legale, che non mettesse a rischio la salute o la vita stessa della donna, come accadeva spesso nel ricorso all’aborto clandestino. Ricordo ancora lo strazio della morte per setticemia della giovane moglie del mio calzolaio, finissimo artigiano di una volta, che lasciava tre figli non ancora adolescenti. Le avevano indotto l’aborto con un ferro da calza, come si usava, e ‘l’intervento’ era andato male: utero perforato, giorni straziante agonia, per lei e per la sua famiglia. La pillola anticoncezionale ancora non c’era, ma farà la sua comparsa poco dopo, demonizzata e osteggiata però al punto che, primi anni ‘70, ero giovane medico, e una mia amica a cui l’avevo prescritta, si è vista rifiutare dal farmacista la vendita del medicinale, che questo è una medicina come tante altre, perché ‘obiettore’. E di che? Ha anteposto la sua ‘morale’ al suo dovere professionale, decidendo del corpo e della vita sessuale della mia amica.
Le lotte femministe di quegli anni hanno ottenuto che l’interruzione volontaria di gravidanza fosse possibile in una struttura pubblica, tutelata da personale medico adeguato, grazie ad una legge, la n. 194.
Alla pillola anticoncezionale non è andata altrettanto bene, perché nessuna legge è stata varata affinché fosse portata a conoscenza di donne adulte, ignare che si potessero avere rapporti intimi più sereni e liberi dall’angoscia di una gravidanza non voluta, e adolescenti di entrambi i sessi, maggiormente a rischio vista la nuova libertà di costumi che si stava instaurando.
Alla pillola è toccato di essere demonizzata e accusata di provocare svariate patologie, e pur riuscendo nel tempo a diventare di uso comune, non è riuscita, insieme agli altri mezzi di prevenzione, a debellare il ricorso all’interruzione di gravidanza. A distanza di oltre 50 anni sento fare gli stessi discorsi di allora. La legge 194 è messa in discussione, e di mezzi di contraccezione per evitare di arrivare ad avere bisogno di quella legge, non se ne parla. Ancor meno che negli anni ‘70 del ‘900. sembra che davvero l’unica proprietà di sé rimasta alle donne sia quell’utero erroneamente gravido! Ma perché mai queste donne non chiedono a gran voce una ‘normalizzazione’ della vita sessuale di tutti, compresa la propria, attraverso una distribuzione gratuita di preservativi nelle scuole dalle medie in su? Perché non chiedono che siano i maschi a rispettare il corpo, e i sentimenti, delle donne evitando loro le conseguenze indesiderate di un piacevole e intimo incontro? Perché si lascia che tale conseguenza sia assunta dalla donna, o ragazzina, che ne deve poi da sola pagare il prezzo? Prezzo che è molto sottostimato e sottovalutato, dal momento che niente resta visibile sul corpo e tutto sembra tornare ‘come prima’, mentre non è affatto così. Un aborto, benché voluto, non lascia intatta la donna che decide di sottoporvisi. Per tutta la vita le resteranno dentro i sentimenti vissuti, soprattutto lo strazio di dover decidere tra la sua stessa vita e quella di un nuovo essere che a volte riesce ad annunciarsi dentro di lei con un improvviso moto molto simile ad un frullo d’ali, il suo primo battito cardiaco. Aldilà di tutte le diatribe se quella sia già una persona oppure no, una donna sa che in lei si è annidato un nuovo essere, a cui lei può dare la vita o negarla. La sua prima spinta la porterebbe ad accogliere quel ‘bambino’, ancora informe, ma bambino; e in ogni caso ‘suo’. Quindi come si fa a non andare oltre la 194, lasciandola ai casi estremi sfuggiti ad un controllo consapevole della propria capacità riproduttiva, sia maschile che femminile? Perché noi donne non ci battiamo per una diffusione di condom nelle scuole educando le nostre figlie a non accettare un rapporto intimo senza questa protezione e i nostri figli a non proporne uno senza? Forse ci dobbiamo domandare quanto stiamo educando le nuove generazioni di donne al rispetto di sé e le nuove generazioni di uomini, al rispetto delle donne.
Di Liliana Stea
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