Sono sempre più numerosi gli studi che dimostrano come lo sviluppo e la crescita di un Paese dipendano anche dal ruolo femminile, tanto in ambito lavorativo quanto in ambito economico, finanziario e sociale. Eppure, secondo un rapporto di Oxfam, pubblicato nell’Ottobre 2018, in Europa le donne vivono ancora una situazione di povertà lavorativa. Secondo il rapporto, le donne europee sono costrette a lavorare 59 giorni in più rispetto agli uomini per ottenere lo stesso stipendio, hanno minore accesso alle figure apicali, sono più esposte a lavori precari, a carriere discontinue, al part-time involontario e spesso rimangono occupate in ruoli che non tengono conto delle loro reali qualifiche di studio o capacità professionali. Tutto ciò, aggravato da una forte “compartimentazione” del lavoro, determina gli attuali differenziali di genere nel mondo del lavoro.
Nel quadro europeo, l’Italia si classifica tra gli ultimi posti per tasso di occupazione femminile e al 118esimo posto su 142 Paesi per tasso di partecipazione economica delle donne (indicatore monitorato nel Global Gender Gap Index realizzato dal World Economic Forum).
Secondo il recente rapporto ISTAT, pubblicato il 26 Febbraio 2020, in Italia il divario di genere nei tassi di occupazione rimane tra i più alti d’Europa (circa 18 punti percentuali su una media europea di 10). Ancora oggi in Italia persiste l’immagine tradizionale della donna dedita prevalentemente alla famiglia e ai compiti di cura e assistenza dei figli, dei familiari disabili e dei genitori anziani, situazione che la costringe spesso ad abbandonare il lavoro per la mancanza di adeguate politiche a sostegno della famiglia. La presenza di figli rappresenta una forte criticità in termini di tasso di occupazione femminile, essendo quello delle madri più basso del 26% di quello delle donne senza figli. L’11,1% delle donne italiane che ha avuto almeno un figlio nella vita non ha mai lavorato, per prendersi cura dei figli, valore decisamente superiore alla media europea, pari al 3,7%.
In questo quadro generale, la donna madre del Mezzogiorno è quella che vive il disagio maggiore: nel 2018 solo il 32,2% delle donne meridionali tra i 15 e i 64 anni lavora, contro il 59,7% nel Nord, e di queste una su tre lavora al Nord (circa il 62% e la componente femminile meridionale è molto più mobile rispetto a quella maschile). Inoltre, una donna meridionale su cinque con almeno un figlio non ha mai lavorato. In questa stessa area del Paese il 12,1% delle donne dichiara di non lavorare anche per altri motivi, contro il 6,3% della media italiana e il 4,2% della media europea.
Il tasso di occupazione delle donne italiane tra 25 e 49 anni con figli varia dunque da un minimo di 17,1% delle madri del Mezzogiorno con basso titolo di studio a un massimo di 81,4% delle madri laureate che vivono al Nord. Tutte le regioni meridionali sono collocate in posizioni gravemente svantaggiate rispetto alle altre europee, con Puglia, Calabria, Campania e Sicilia nelle ultime quattro posizioni per tasso di occupazione (Svimez, Marzo 2018).
Ma da dove nasce questa drammatica differenza all’interno dello stesso paese Italia?
La scarsa partecipazione femminile nel mondo del lavoro è connessa all'incapacità delle politiche di welfare e del lavoro di conciliare la vita lavorativa con quella familiare ed è strettamente correlata all’offerta, da parte della pubblica amministrazione, di servizi per l'infanzia e per la cura degli anziani.
Già nel 2002 l’Unione Europea, con il Consiglio europeo di Barcellona, aveva fissato come traguardo per gli stati membri il parametro del 33% dell’offerta di posti negli asili nido, da raggiungere entro il 2010, per sostenere la conciliazione della vita familiare e lavorativa e promuovere la maggiore partecipazione delle donne nel mercato del lavoro.
Secondo l’ISTAT, in alcune regioni del Centro-Nord l’obiettivo del 33% è stato superato da diversi anni, come la Valle d’Aosta, che ha il tasso di copertura più alto in Italia (47,1%), la Provincia Autonoma di Trento, l’Emilia Romagna, la Toscana e l’Umbria. Nelle restanti regioni del Centro-Nord i valori medi regionali sono ancora inferiori al target europeo, ma si avvicinano e talvolta superano il 30% di copertura della popolazione target (è il caso del Friuli-Venezia Giulia, del Lazio, della Liguria). Le regioni del Mezzogiorno, invece, si collocano tutte al di sotto della media nazionale del 24,7%, ad eccezione della Sardegna (27,9%). Le situazioni più svantaggiate si riscontrano in Calabria, in Campania e in Sicilia, dove meno del 10% dei bambini sotto i 3 anni ha un posto disponibile nei servizi socio-educativi per la prima infanzia.
Ma per quale ragione al nord l’offerta di servizi per l’infanzia è tanto maggiore rispetto al sud? Perché, ad esempio, per gli asili nido lo Stato spendeva 51 milioni a Torino e, in Campania, 16 a Napoli e 0 nei grandi centri della provincia (come Giugliano, Casoria, Pozzuoli, Portici, San Giorgio a Cremano, Ercolano)? La risposta è nell’attuazione perversa del federalismo fiscale e nella truffa della spesa storica, come ha spiegato Marco Esposito nel suo Zero al Sud: “La definizione di Marattin era quella della Copaff ereditata dalla Ctfs: considerava i fabbisogni pari agli importi necessari all’ente comunale per garantire i servizi storici. Quindi se non avevi asili nido, il tuo fabbisogno per gestire asili nido era ovviamente zero. (…) Per istruzione e asili nido l’assenza di servizi equivaleva ad assenza di fabbisogni. (...) I bambini e le famiglie non avevano valore statistico, si contavano i mattoni degli edifici scolastici. Se non hai l’asilo, vuol dire che non ti serve”.
Come nel caso dei servizi per l’infanzia, per l’assistenza agli anziani le donne meridionali vivono la condizione peggiore: al Sud la spesa annua pro capite per gli anziani sopra i 65 anni è di di 55 euro contro i 119 euro al Centro-Nord.
Quindi, in un sud dimenticato e lasciato “storicamente” senza servizi, lo Stato condanna le sue donne all’eterna discriminazione. Ma le donne meridionali non ci stanno! Bisogna eliminare nel minor tempo possibile la disparità di accesso al mondo del lavoro, non solo di genere ma anche tra donne del nord e donne del sud. Utilizzando parte dei recovery fund europei, si possono aumentare i servizi pubblici rivolti alle famiglie del sud, attribuendoli in base ai reali bisogni della popolazione e non alla spesa storica, per sostenere la cura dei figli nei primi anni di vita e i servizi agli invalidi, malati cronici, disabili e anziani, che ad oggi gravano principalmente sulle donne. Si possono introdurre sgravi contributivi in favore dei datori di lavoro del settore privato che sottoscrivono contratti collettivi aziendali recanti l’introduzione di misure di conciliazione tra vita professionale e vita privata. Si può investire per una vera parità di genere in famiglia e sul posto di lavoro, dando eguali prospettive di carriera ed eguali carichi familiari a uomini e donne, ad esempio introducendo un sistema di congedi di egual durata per entrambi i genitori, sul modello su cui si sta muovendo il Portogallo. Si può incentivare la creazione di nidi aziendali, come quelli introdotti ben cent’anni fa da Luisa Spagnoli nello stabilimento dolciario di Fontivegge (Pg).
Solo un cambiamento radicale nell’impostazione delle politiche sociali, attualmente inique e discriminatorie, che agisca anche sul versante dell’offerta per ridurre le disuguaglianze di genere e territoriali, può rivolgere finalmente la rotta di questo paese verso l’equità e l’unità.
Di Mariagrazia Dilillo , referente circolo di Bologna, Commissione Equità di Genere
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