di Michele Eugenio Di Carlo
Ad est di San Giovanni Rotondo, oltrepassati il lago di S. Egidio, oggi prosciugato, e l’altipiano di Campolato, sorgeva su un’altura Monte Sant’Angelo, circondata da «ripe, da balze, e da valloni», dove solo i montanari sapevano avventurarsi con destrezza, accompagnati dalla presenza alpestre dei corvi.
Monte S. Angelo era passata dai 146 fuochi del 1532 ai 556 del 1669[i], alle 2508 anime indicate da Giovan Battista Pacichelli nel suo primo viaggio in Puglia del 1682[ii]. Agli inizi dell’Ottocento Manicone la trovava «talmente popolata» da contare 11.500, quindi la città più abitata del Gargano all’epoca[iii].
Secondo la dettagliata relazione di Lorenzo Giustiniani, Monte S. Angelo produceva grano, legumi, vino, olio, carrube, oltre che miele, manna e pece[iv].
Persino nei boschi di Monte S. Angelo, che si estendevano fino ai limiti della Foresta Umbra, si seminavano in coltura asciutta cavoli e broccoli che vegetavano anche solo grazie alla rugiada abbondante dei declini boscosi posti sulle alture del Gargano; rugiada e alture permettevano che il terriccio rimanesse umido nonostante i prolungati e frequenti periodi siccitosi. A Monte si coltivavano anche le tipiche essenze orticole, che all’impossibilità di irrigare e al basso regime pluviometrico sopperivano con l’umidità notturna e mattutina, tipica delle medie quote altimetriche garganiche. Anche nei boschi di Monte si era diffusa, seguendo l’esempio di San Marco, la coltivazione del granoturco.
Il frate Michelangelo Manicone, visibilmente appagato, annotava che nel decantare le benefiche virtù del granoturco aveva convinto un “galantuomo” a coltivarlo, imitato in seguito da altri paesani.
A Monte i vigneti erano stati ovunque estirpati per favorire la produzione olearia. Anche nella contrada di “Matinata” le vigne, sommerse dal fango e dai detriti provenienti dal canalone di sbocco della valle Carbonara, erano state sostituite dagli oliveti. Essendo protetta dai venti boreali e posta in piano, a ridosso di un lungo arenile, la contrada di Mattinata produceva oltre ad un eccellente olio, carrube e frutta di vario genere[v].
Luigi Gatta, preparato storico locale, sostiene che nella prima parte dell’Ottocento nel villaggio di Mattinata l’attività agricola aveva mantenuto gli stessi sistemi di coltura. Pur essendo aumentate le porzioni di terra da coltivare a seguito delle «numerose usurpazioni effettuate nel Demanio e nelle Difese Comunali di Vota e Casiglia», che non avevano tuttavia aumentato più di tanto la produzione agricola[vi].
Sempre secondo il Gatta, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, dissodamenti abusivi e usurpazioni non avevano interessato i grandi boschi delle contrade di “Vergone del Lupo”, “Davanti”, “Finocchito” e “Spillacardillo”. Disboscamenti e relative “cesinazioni” con costruzioni di muri a secco, cisterne e pagliai abusivi, erano stati realizzati nelle vicinanze del nascente villaggio, nelle località “Copparosa”, “Paratina”, “Parco Mingarello”, “Don Leonardo”. Fenomeni insediativi che sicuramente determinarono un aumento della popolazione e lo sviluppo del primo nucleo abitato di Mattinata sulla collina del “Castelluccio”[vii].

Valle Carbonara
Un altro storico di Mattinata, Michele Tranasi, riporta in maniera dettagliata il tipo di coltivazioni presenti all’inizio dell’Ottocento nelle contrade Carbonara e Mattinata. E se si tengono in conto le affermazioni del Gatta sull’insignificante trasformazione del paesaggio agrario tra fine Settecento e primi decenni dell’Ottocento, diventa possibile ricostruire agevolmente il paesaggio agrario di questo lembo del Gargano.
La strada che da valle Carbonara raggiungeva Monte era scoscesa, eppure i pellegrini e le carovane di muli che trasportavano in continuazione vino, agrumi e frutta, spesso da Vico del Gargano, dovevano necessariamente percorrerla. Manicone proponeva la costruzione di una comoda e larga strada con tornanti da valle Carbonara alla “Sacra Spelonca” passando per “Croci”. Nelle aree meno scoscese della valle di Carbonara erano presenti anche i cereali, tra i quali non poteva mancare il grano, soprattutto dopo la carestia del 1764 che aveva causato migliaia di vittime in tutta la Capitanata e che, come spiega lo storico di Monte S. Angelo Giuseppe Piemontese[viii], aveva indotto i poveri braccianti ad un disboscamento selvaggio proprio per coltivare grano. La coltura prevalente lungo i pendii era il vigneto, impiantato lungo ingegnosi terrazzamenti che avevano la duplice funzione di permettere la coltivazione in piano e di conservare il terreno fertile, altrimenti destinato ad essere asportato dall’azione dilavante delle acque meteoriche.
La descrizione dello sbocco della valle Carbonara nella piana di Mattinata del meridionalista di Altamura, Tommaso Fiore, in “Terra di Puglia e di Basilicata”, pubblicata nel 1968, resta una delle testimonianze più limpide e toccanti di questa margine di territorio:
«È qui che, penetrando nella zona di Mattinata ancora prima del bivio, ho ricevuto la rivelazione che nessuno mi avrebbe potuto fare, ho constato con i miei occhi quel che mai avrei creduto, me l’avessero detto in cento, il prodigio di un lavoro immenso, di un’opera paziente, senza limiti, forsennata, di un popolo di formiche, o di schiavi ostinati, e il sacrificio di generazioni di lavoratori. Oh, avevo ben conoscenza io, da gran tempo, di muretti a secco, specialmente nella dolce plaga tutta a collinette, a sud-est di Bari […] Ma qui non è più una collina, o non c’è più dolcezza; qui, salendo verso il bivio, ai due fianchi, su per la gran massa montuosa, aspra come qualche cocuzzolo che se ne stacca d’improvviso per la regolarità di cono, tutti gli aspetti intorno non sono che muri rustici, a secco, saldamente piantati per contenere appena un piccolo lembo di terra; e non dieci muretti, non venti, non cinquanta, ma a centinaia, a migliaia, senza numero… »[ix].
La contrada di Mattinata, all’epoca non ancora Comune, era una delle aree più fertili del territorio di Monte Sant’Angelo. Era passata dalla proprietà delle badie di Pulsano e di Monte Sacro a quelle della Mensa Arcivescovile di Manfredonia, della Basilica di San Michele, dei monasteri delle Clarisse, dei Celestini e dei Carmelitani, per poi finire, prima e dopo la promulgazione delle leggi eversive del 1806, nel possesso esclusivo della borghesia agraria di Monte S. Angelo, che aveva allontanato forzosamente i poveri contadini e braccianti che avevano tentano di colonizzare quei terreni per ragioni di pura sussistenza. Tranasi elenca persino le famiglie agiate che grazie a quella «corsa alla terra» si strutturarono al vertice politico, economico e sociale della comunità di Monte S. Angelo e che, nel bene e nel male, avrebbero condizionato la vita cittadina nelle vicende legate al Risorgimento e al periodo post unitario: Gambadoro, Vischi, Rago, Torres, d’Angelantonio, Basso, d’Errico, Giordani, de Angelis, Prencipe, del Nobile, Cassa, Ciampoli, Capossela, Gelmini, Bisceglia, Azzarone, Amicarelli.
Anche Tranasi conferma, nella piana di Mattinata, l’attività agricola volta alla produzione di cereali e, in misura minore, quella dedicata all’olivo e al mandorlo, segnalando anche in maniera rilevante la presenza di alberi fruttiferi quali fico, pesco, pero e melo[x].
Infatti, il Gargano non presentava il clima rigido del “Piano Cinque Miglia”[xi] o del gelido “Monte Corno”[xii], né il caldo estivo soffocante del Tavoliere[xiii]. Diversi erano gli indicatori naturali, definiti “termometri”, che dimostravano la dolcezza del clima garganico. Uno di questi era costituito dalle Graminacee, le cui spighe nel Gargano maturavano tutte entro il mese di luglio dando ottimo grano e pregevoli “biade”, mentre nei climi rigidi del nord la fase di levata delle spighe avveniva in agosto o settembre, troppo tardi per ottenere una ideale maturazione prima del ritorno dei rigori invernali.
La questione è ora tornata d’attualità, considerata la smisurata importazione di grano duro canadese in Italia per produrre pasta. Infatti, il grano canadese spesso non giunge a piena maturazione e deve essere trattato chimicamente con erbicidi al fine di anticiparla. Una pratica vietata in Italia e che scatena una furibonda polemica che tocca sia l’aspetto salutare del grano importato, sia l’aspetto commerciale, in quando negli ultimi decenni ben 600 mila ettari di grano duro del Sud sono stati abbandonati.
[i] L. Giustiniani, Dizionario geografico-ragionato del Regno di Napoli, tomo VI, Napoli, presso Vincenzo Manfredi, 1803, p. 133.
[ii] G. B. Pacichelli, Memorie dei viaggi per la Puglia (1682-1687), a cura di Eleonora Carriero, Edizioni digitali del CISVA, 2010, p. 6.
[iii] M. Manicone, La Fisica Daunica , a cura di L. Lunetta e I. Damiani, parte II Gargano, cit., p.21.
[iv] L. Giustiniani, Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli, tomo VI, Napoli, presso V. Manfredi, 1803, p. 132.
[v] Cfr. M. Manicone, La Fisica Daunica, parte II, cit., pp. 26-29.
[vi] Cfr. L. Gatta, Mattinata frazione di Monte Sant’Angelo tra ‘800 e ‘900, Vol. I, Foggia, Grenzi Editore, 1996, p. 62.
[vii] Cfr., ivi, p. 195.
[viii] G. Piemontese, I Grimaldi. Monte Sant’Angelo e il Gargano dalla feudalità all’unità d’Italia , Foggia, Bastogi, 2006, pp. 81-88.
[ix] T. Fiore, Terra di Puglia e di Basilicata, Cosenza, Pellegrini Editore, 1968; cit. tratta da L. GATTA, Mattinata frazione di Monte Sant’Angelo tra ‘800 e ‘900, cit., p. 208 nota 11.
[x] M. Tranasi, Dalla proprietà comune alla proprietà privata - Monte Sant'Angelo 1806-1860, Foggia, Leone Editrice, 1994, pp. 111-113.
[xi] L’Altopiano delle Cinquemiglia, posto a circa 1250 metri s.l.m. nella bassa provincia dell’Aquila, è compreso nel territorio dei comuni di Roccaraso, Rivisondoli, Rocca Pia.
[xii] Per Monte Corno lo scienziato Manicone non intende nessuna delle vette delle Alpi così denominate, ma il Corno Grande posto nel massiccio del Gran Sasso e che ne costituisce la vetta più alta (metri 2914 s.l.m.).
[xiii] Cfr. M. Manicone, La Fisica Appula, tomo V, libro VII, cit., pp. 5-8.
4 Comments
Giuseppe Gangemi
Ho trovato molto interessante l’articolo con una sorprendente lacuna: non viene citato il catasto onciario del 1742-46 che fa un resoconto dettagliato di cosa si produceva in tutto il Regno di Napoli. Perché? La struttura descrittiva per Stati locali non è adatta a separare Monte Sant’Angelo dal resto dello Stato?
Ho trovato ancora più interessante la notazione secondo cui ai primi dell’Ottocento si passa massicciamente alla coltivazione dell’Ulivo. Ho trovato la stessa cosa in Calabria, da Catanzaro a Reggio, ma pensavo fosse stata conseguenza delle distruzioni operate dal terremoto del 1783. Ciononostante, avevo attribuito il mutamento al bisogno di esportare olio in Inghilterra, dove dal 1770, le nuove macchine industriali richiedevano lubrificante, che al tempo poteva essere solo di origine vegetale. scoprire che la sostituzione c’è stata anche nel Gargano allarga la prospettiva sulla politica economica del Regno e sulla funzione della prima cattedra di economia politica istituita all’Università di Napoli.
Buongiorno Giuseppe, questo è solo un articolo tratto peraltro da un testo che non ho nemmeno ancora pubblicato. Ho studiato a fondo il catasto onciario di Vieste del 1754 e di Cagnano Varano e ne ho fatto menzione nel mio testo sulla transumanza “La Capitanata al crepuscolo del Settecento”. Mi ha sorpreso il fatto che la media di persone per famiglia era di 4.5, che quasi tutte le famiglie disponevano di un “sottano” di un piccolo appezzamento di terreno, oltre al fatto che potevano esercitare liberamente gli usi civici. Da questo studio è emerso in me sempre più la considerazione che la miseria nera è arrivata dopo l’unità d’Italia. Michele Eugenio Di Carlo
Giuseppe Gangemi
Dalle ricerche sul catasto onciario calabrese, emerge che i piccoli proprietari, probabilmente quelli che detenevano il “sottano” (ma è termine che non ho trovato nel Catasto onciario dello Stato di Santa Cristina che ho studiato, detenevano solo il 2-3% delle proprietà agricole e pagavano il 18-20% di tasse. Questo mi è stato confermato da altri studiosi calabresi dei catasti onciari. Può anche voler dire che i “sottani” rendevano molto di più, per unità agricola, delle grandi proprietà, molte delle quali rimanevano incolte. Dovresti controllare quanto grandi erano i “sottani” e quale percentuale di terre occupavano rispetto al totale.
Per quanto a concludere quello che dici tu, ci andrei cauto. La lotta per l’occupazione delle terre incolte, molte delle quali erano occupazioni abusive di terre demaniali, è sempre stata endemica in Sicilia e in Calabria (altrove non ne so molto, ma immagino forse lo stesso). Inoltre, il passaggio alla monocultura dell’olivo, in Calabria, si accompagna alla vendita delle terre della Chiesa ai privati e questo impoverisce i contadini che avevano bisogno per sopravvivere dei diritti comunitari su quelle terre che la Chiesa rispettava e i privati no.
Per questo, dal momento che i nuovi padroni borghesi hanno aderito alla Repubblica Giacobina per convenienza, scoppia in Calabria la rivoluzione sanfedista, che è rivolta per la terra. Finisce che l’unica cosa che i Sanfedisti ottengono è quello che riescono a rubare durante i saccheggi. I Borboni non concederanno loro niente. Per questo, nel 1806, al ritorno dei Francesi, si sono mossi meno numerosi e si sono limitati a difendersi.
I sottani sono le abitazioni al piano terra per le famiglie di braccianti e piccoli contadini, che dalla seconda metà del Novecento furono poi adibite quasi tutte a stalle per muli e asini in particolare. I dati dei catasto onciari di Vieste e di Cagnano sono fondati. Te li trasmetto tramite ws estraendoli dal mio testo Contadini e braccianti nel Gargano dei briganti e citando le fonti.