di Raffaele Vescera
“1972 è un foglio di carta da bollo da 2000 quello con la bilancia, è una collezionista (rivolgetevi a qualche collezionista)”
Il biglietto con l’oscuro messaggio fu spedito a Francesco Marcone tre anni dopo la sua morte, con il probabile intento di far luce sui suoi assassini. Erano passati altri sette anni, in tutto dieci, dall’omicidio, prima che la famiglia della vittima decidesse di rendere pubblico lo strano rebus, indirizzato ad un morto, non si capisce se per macabro scherzo o per avviso cifrato, poiché, in sette anni, gli investigatori non avevano trovato la chiave che aprisse la porta del mistero.
Lo uccisero nel centro di Foggia, alle sette della sera, i killer lo aspettarono nel portone di casa, al rientro dal lavoro. Chissà se lo chiamarono dottore, prima di sparargli un colpo alla nuca e poi, per scrupolo professionale, un altro alla schiena, ponendo fine al suo mestiere di far pagare le tasse a tutti, anche a quelli che, ricchi esagerati, mai s’erano sognati di dare un soldo alla pubblica utilità.
Il messaggio era stato scritto da mani misteriose, come incomprensibile enigma, sopra una cartolina postale imbucata nell’anonima buca postale della ferrovia. Forse la comprensione di quelle parole cifrate può aiutare gli inquirenti a svelare il segreto più grande di Foggia, la presenza misteriosa di un livello sconosciuto di potere che, sconfinando da quelli soliti, economico da una parte, politico dall’altra, giudiziario e criminale dall’altra ancora, unisce tutti i poteri in un solo grande disegno di dominio, una dittatura assoluta del male esercitata da pochi grandi capi, forse una cupola comandata da un capo unico, oppure una cagnara affidata alla legge del più forte. Un terzo livello della mafia, forse leggendaria chimera o tragica realtà.
Ma che cosa potesse significare il numero 1972, un foglio di carta da bollo giudiziario, quello con la bilancia, da 2000, forse duemila lire dell’epoca, non si capiva. 1972 era forse un numero di fascicolo sul quale il dottor Marcone, direttore dell’ufficio del registro di Foggia stava indagando, oppure era un anno di nascita, o anche il numero o l’anno di emissione di un atto giudiziario, che a quei tempi costava all’incirca duemila lire? E chi era la collezionista da cercare, forse un’archivista dell’ufficio, custode degli atti giudiziari? O una collezionista di armi, o nulla di tutto questo, forse una semplice collezionista per hobby di chissà che, detentrice del segreto. Poteva essere che l’ignoto autore del rompicapo, scritto con grafia distinta, con quel messaggio provava ad aiutare gli inquirenti senza esporsi troppo, poiché forse era l’unica persona a conoscere ragioni ed autori dell’omicidio e, nel caso avesse dato indicazioni più precise, gli assassini sarebbero facilmente risaliti all’autore della spiata.
Ma, per quanto gli investigatori si fossero sforzati e avessero sbattuto la testa, consultando esperti di ogni genere, non trovarono alcuna soluzione all’enigma e, brancolando nel buio delle infinite possibilità, archiviarono l’inchiesta.
All’inizio, le indagini giudiziarie s’erano dispiegate in tutte le direzioni, anche in quelle futili ed improbabili di una seconda vita segreta per un uomo della statura morale della vittima, ma infine le inesistenti piste delle faccende private furono abbandonate poiché emergeva, grande come un’autostrada, seppur nebbiosa, una sola pista possibile che potesse spiegare le ragioni della spietata esecuzione del direttore dell’ufficio del registro.
Appena otto giorni prima dell’omicidio, il dottor Marcone aveva denunciato alla magistratura e agli ordini professionali di commercialisti e avvocati la presenza nei corridoi e nelle stanze dell’ufficio del registro di due faccendieri a lui sconosciuti che promettevano, in cambio di denaro, l’evasione della tassa prevista sugli atti di compravendita degli immobili, avvisando i notai che circolavano documenti con la sua firma falsificata.
Quarantott’ore prima della sua morte, l’onesto direttore dell’Ufficio del Registro, sollecitato per telefono da qualcuno che aveva a cuore la faccenda, chissà chi, forse un collega, aveva chiuso l’inchiesta su un atto da lui definito “maledetto”, contestando ad una fabbrica di Foggia l’evasione di una tassa di settecento milioni di lire sulla vendita della stessa, effettuata con la complicità di una società finanziaria siciliana, andata sotto inchiesta per i suoi legami con Cosa Nostra. Ma “l’atto maledetto portava il numero 4124, non 1972.
Il carattere morale di Franco Marcone veniva da lontano. Suo padre, Arturo, era il direttore della biblioteca provinciale quando, durante la seconda guerra mondiale, cadde una bomba che bucò il tetto dell’antico palazzo della biblioteca, opera pare del Vanvitelli, e sprofondò nel pavimento scatafasciando scaffali, sedie, scrivanie, (quartine e cinquecentine), stampe rare e spartiti preziosi, libri giganteschi rivestiti di pelle di capra e libricini delicati come farfalle. Quel 23 luglio, le mille bombe americane e inglesi ridussero Foggia ad un cumulo di macerie, uccidendo metà della innocente popolazione civile, composta da cinquantamila anime a quei tempi. Dicono che gli assassini più accaniti fossero i piloti inglesi che scesero a bassa quota per mitragliare l’innocente folla fuggiasca, per “coventrizzare” Foggia, cioè per vendicare quanto i nazisti bastardi avevano fatto alla città inglese di Coventry. Le strade rilastricate da strati confusi di corpi dilaniati. La città morta. Nel cratere della bomba caduta sulla biblioteca, erano caduti i libri migliori, alcuni vecchi come l’invenzione della stampa, ma il direttore, anziché fuggire come quasi tutti da Foggia, strappava i libri al cratere, uno per uno, con le unghie, scavando nelle macerie. Ogni giorno caricava i libri salvati su un asino per portarli a Troia, un paese a meno di venti chilometri da Foggia dove aveva posto in salvo la sua famiglia, la moglie, i figli ancora bambini, e dove s’erano rifugiati molti cittadini di Foggia. Nei suoi coraggiosi viaggi quotidiani tra la città e il paese, con l’asino, insieme ai libri, portava ai rifugiati le notizie sui pochi vivi rimasti in città. Arturo aveva un cuore grande ma alquanto debole, una valvola mitralica non voleva saperne di fare il suo dovere per l’uomo che aveva il senso del dovere esagerato, e al quale il medico aveva prescritto riposo assoluto e lontananza dagli affanni. Ma don Arturo, invece di rifuggire le cose affannose e rifugiarsi nella tranquillità della vita paesana, continuò a salvare libri facendo quaranta chilometri al giorno. Il suo cuore si fermò a quarantadue anni, a pochi giorni dall’otto settembre, quando Badoglio avrebbe firmato l’armistizio con l’esercito alleato, il figlio Franco aveva otto anni, ultimogenito di una sorella, Maria, che da grande avrebbe scritto romanzi, e di altri due fratelli.
Il piccolo Franco amava il gioco degli scacchi, a sette anni aveva sconfitto un avvocato di cinquanta. Chissà se il piccolo scacchista sapeva già che l’invenzione degli scacchi, secondo una leggenda orientale, è legata ad un fatto di sangue, oppure se l’avesse appreso negli ultimi giorni di vita dal libro, l’ultimo che avrebbe letto, “La variante di Luneburg” che, pur non amando la letteratura moderna, in quegli ultimi giorni di vita, il dottor Marcone leggeva, avuto in prestito dalla figlia Daniela. Il romanzo di Maurensig, suggestionato dalle parole del campione russo Kasparov, il quale afferma che gli scacchi sono lo sport più violento che esiste, narra la storia di un colpo di pistola che chiude la vita di un uomo. Un omicidio, una spietata esecuzione? E per quale colpa? Nel romanzo la risposta sta in una mortale e ultima mossa di scacchi di una partita giocata a distanza da due maestri del gioco, l’uno ebreo l’altro nazista, mossi da un odio inesauribile, sulla grande scacchiera della vita e della morte.
Narra una leggenda che, quando il gioco fu presentato per la prima volta a corte, il sultano volle premiare l’inventore esaudendo ogni suo desiderio. Questi chiese per sé di avere tanto grano quanto poteva risultare da una semplice addizione: un chicco sulla prima delle sessantaquattro caselle, due chicchi sulla seconda e così via…Ma quando il sultano, che aveva in un primo tempo accettato di buon grado, si rese conto che soddisfare una simile richiesta gli sarebbe costato troppo, stimò opportuno mozzargli la testa.
Nulla di più verosimile che i sultani di Foggia, usi ad evadere le tasse del registro, e a pagare poco e niente per i trasferimenti di terreni e di proprietà, in presenza di un affare colossale quale quello dei terreni edificabili del nuovo piano regolatore, e di altri affari sparsi, non riuscendo a domarlo, abbiano deciso di fare con il custode delle regole del registro come il sultano della leggenda degli scacchi aveva fatto con l’ignoto inventore del gioco.
Franco aveva spalle solide e occhi malinconici, celeste intenso, color di fiordaliso, delicati come quei fiori, tanto da proteggerli da eterne lenti scure contro la luce esagerata del sudest. Così anche era il suo carattere, riservato e contrario a sovresporre la sua persona alle luci della ribalta. Intelligenza naturale, cresciuto a pane e libri, coraggio e dovere, avverso ai compromessi, alle ambiguità e all’invidia, sarebbe diventato un galantuomo scomodo nel mondo dei compromessi e delle ambiguità. Adulto e laureato, Franco Marcone, frugale nel cibo, amico di lunghe passeggiate in riva al mare, amava il classico nel vestire e nella musica, quando la figlia, Daniela, suonava Chopin, si avvicinava silenziosamente al piano, e fermandosi alle spalle della figlia, andava in estasi, aveva una grande passione per la lirica e per Pirandello, di cui conosceva i mille racconti, e di cui, in seguito, sarebbe diventato un personaggio possibile, vittima dell’assurdità di un mondo ambiguo. Gli piaceva il cinema di denuncia sociale che proponeva eroi portatori di valori forti, i film contro la mafia erano i suoi preferiti. Unica concessione che faceva alla modernità, era usare il computer per il gioco degli scacchi, in mancanza di validi avversari umani in questo gioco, sfidava una macchina ritenuta impossibile da battere, riuscendo qualche volta a sconfiggerla. Seppur munito di una personalità complessa e fortemente strutturata, aveva un carattere semplice ed essenziale, molto religioso, mostrava un’umanità trasparente, era solare, seppure malinconico, soprattutto da quando la sua passione politica, rivolta all’uguaglianza e all’onestà tra gli uomini, era stata frustrata dalle accuse di colossale corruzione al segretario nazionale dei socialisti cui seguì la fuga in Africa dell’accusato e la frantumazione del partito. Ma, più di tutto, il direttore dell’Ufficio del registro di Foggia, fu sconvolto da alcuni avvenimenti accaduti in pochi mesi, l’assassinio dei grandi giudici antimafia di Palermo e il misterioso attentato contro il suo diretto superiore, il dottor Caruso, siciliano, il direttore regionale, gli avevano sparato alcuni colpi di pistola contro la porta di casa senza ferirlo, forse a solo scopo intimidatorio. Ma l’attentato al direttore capo non aveva alcun legame con Palermo e la Sicilia, il movente era da cercare negli affari sporchi di Foggia.
“È difficile fare il proprio dovere”, diceva a casa, in quei giorni di paura, il dottor Marcone, che, già parco di discorsi, divenne taciturno e non spiegava le poche parole ai familiari, forse per evitare loro preoccupazioni sul suo futuro che, in qualche modo, prevedeva tragico.
Ma quale odio poteva attirare un uomo mite come Marcone, che nulla doveva e nulla aspettava, e da quale avversario poteva temere lo scacco matto alla sua vita? Chi conosce i fatti di Foggia di quegli anni feroci, non tarda a capire che l’onesto funzionario dell’ufficio del registro era il solo ostacolo incontrato dagli speculatori sulla strada degli affari sporchi. Il solerte funzionario aveva diritto di controllo e di veto sulle transazioni notarili di compravendita di terreni e fabbricati, negli anni del nuovo piano regolatore della città. C’erano da edificare quartieri interi. Una sua parola poteva decidere se un palazzinaro fosse tenuto a pagare poche lire su una transazione edilizia, come spesso accadeva in precedenza, oppure se dovesse pagare per intero l’imposta di alcuni miliardi, o milioni di euro come si usa oggi, dovuti per legge. L’evasione delle imposte era diffusa anche nella semplice vendita di un appartamento nuovo ai cittadini da parte dei costruttori, i quali pretendevano soldi in nero dagli acquirenti per dichiarare un valore ridotto degli immobili e pagare meno imposte. Chi voleva acquistare un appartamento in modo pulito, senza versare denaro in nero, si vedeva negato l’acquisto. Nessuna trasgressione era concessa alla legge dell’evasione.
Lo scrupoloso direttore del registro era un ostacolo grande come una montagna che andava spianata con le ruspe, e ruspe ed escavatrici non mancavano di certo a chi scavava fondamenta edificabili per mestiere e fossi cimiteriali per necessità.
I funerali di Marcone, seppur ignorati da molti potenti di Foggia, furono celebrati dal vescovo in persona, noto per il suo impegno contro la malavita, il quale pronunciò un’omelia accesa: " …Quanti altri omicidi dovremo attendere, prima che insorga forte la risposta della nostra città alla malavita organizzata? …Che si faccia piazza pulita della diffusa omertà, della sempre più pericolosa indifferenza, delle collusioni abilmente mascherate ma tragicamente operanti nel tessuto sociale ".
Lo stesso giorno un quotidiano locale rilevava: " in tutta la storia della Nazione, mai un pubblico funzionario è stato vittima di un omicidio ".
Due giorni dopo i funerali, Maria, la sorella scrittrice di Franco, scriveva in una lettera inviata a tutti i giornali:" Non chiudiamoci nelle case … facciamo sentire la nostra voce … denunciamo le magagne piccole e grandi … i corrotti e i delinquenti contano sulla paura dei più … con quel morto ammazzato mandano un avvertimento preciso agli altri pochi onesti di non osare, altrimenti faranno la stessa fine ".
Lo stesso giorno la polizia arresta, per tentata concussione e falso, il direttore dell'Ufficio tributi comunali di Foggia. Secondo gli inquirenti, era lui uno dei faccendieri che nei corridoi dell’Ufficio del Registro, spacciandosi per amico di Marcone, prometteva la facile evasione delle imposte. Ma le indagini non trovarono alcuna relazione tra le sue illecite promesse e l’omicidio, e fu presto scarcerato.
Un anno dopo, ci fu una svolta clamorosa nelle indagini, gli arresti domiciliari del direttore regionale del Registro, lo stesso che aveva subito l’intimidazione della sparatoria dietro la porta di casa. Secondo gli inquirenti, l’avvertimento mafioso da lui subito aveva raggiunto il suo scopo, poiché da uno dei fascicoli segnalati come sospetti da Marcone, era risultata l’evasione di una tassa da due miliardi di lire, più di un milione di euro, avvenuta con la sua complicità. Il direttore regionale, accusato di concorso in abuso d’ufficio, rivelazione di segreto d’ufficio ed evasione fiscale, avrebbe aiutato un uomo d’affari di Foggia che ricopriva anche un incarico politico e uno dei costruttori più potenti di Foggia. Tuttavia, una decina di giorni dopo, fu annullato l’arresto e, due anni dopo, il direttore regionale fu prosciolto dalle accuse di abuso e concussione, perché fu accolta la tesi difensiva che sì aveva aiutato il costruttore, ma l’aveva fatto legalmente, sforzandosi di trovare per lui una strada impervia ma legittima per fargli pagare una tassa più favorevole, Pertanto l’accusa fu archiviata “Per difetto degli elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio e scadenza dei termini”, come scrisse il giudice.
Due mesi dopo l’arresto del direttore regionale, furono raggiunti da avviso di garanzia per i reati di falsità materiale, soppressione di atti vari, uso abusivo di sigilli veri e truffa aggravata, alcuni membri di una delle famiglie di imprenditori più ricchi, potenti e chiacchierati di Foggia, che falsamente si dichiaravano piccoli contadini per pagare la tassazione ridotta per la compravendita di vasti terreni agricoli, ed un impiegato dell'Ufficio del Registro di Foggia. Vennero coinvolti anche un altro impiegato dell'Ufficio del Registro ed un notaio, dei quali non sono resi noti i nomi. Per tutti scattò l'obbligo di dimora nei rispettivi Comuni di residenza.
A parte un insospettabile collezionista di cose futili dipendente dell’ufficio di Marcone, non c’erano altre piste indagabili sino a quando, una donna raccontò alla polizia che il suo uomo, collezionava armi. Il perché della denuncia era dovuto alle continue e violenti liti tra la coppia, con risvolti violenti da parte dell’uomo, la donna consumava la vendetta amorosa contro l’uomo che l’aveva costretta, tra gli altri traffici loschi, a custodire una collezione illegale di armi. Il rebus della collezionista sembrava vicino alla soluzione.
L’irruzione della polizia sul luogo indicato dalla donna scoprì una valigetta contenente una pistola calibro 9 e un fucile a canne mozze, con le matricole abrase. L’uomo implicato nell’illecita detenzione fu arrestato. Professione ex impiegato dell’ufficio del registro di Foggia, trasferito tempo prima in seguito ad un rapporto del direttore, Franco Marcone, il quale non tollerava i metodi guappi del dipendente assenteista, arrogante e irrispettoso. L’uomo, trasferito all’ufficio atti giudiziari, quelli con la bilancia, viene naturalmente da pensare, fu redarguito e sanzionato anche dal direttore del nuovo ufficio per il suo comportamento di malabuatta. Trasferito all’ufficio del registro di un paese vicino, minacciò anche il suo nuovo direttore dicendogli che gli avrebbe fatto fare la fine di Marcone. I molti indizi sulle possibili responsabilità dell’indagato si fermavano però di fronte ad un fatto: la pistola usata per sparare contro Caruso e contro Marcone era stata un calibro 38 e non la calibro 9 da lui posseduta. L’uomo si difese dall’accusa di detenzione dicendo che aveva sottratto le armi al fratello, il quale le aveva ricevute in eredità dal padre defunto e le collezionava per passione, temendo che ne potesse fare cattivo uso.
La scientifica, però, usando una tecnica sofisticata, riuscì a ricostruire i numeri abrasi, risalendo così alle matricole della pistola e del fucile, e all’acquirente. Le indagini accertarono che le due armi erano state vendute in armeria a una guardia giurata di Foggia in possesso di regolare porto d’armi, il quale in seguito ne aveva denunciato il furto. Solo che, la calibro 9 e il fucile furono acquistate insieme a due pistole calibro 38. Introvabili. Le perizie balistiche effettuate dall’industria italiana produttrice del calibro 38, che conserva la prova balistica di tutte le armi da essa fabbricate, dichiarò che c’era perfetta compatibilità tra quelle pistole e i proiettili sparati contro Caruso a Marcone.
L’impiegato dell’ufficio del registro detentore di armi rubate fu iscritto nel registro degli indagati per l’omicidio del suo ex direttore. La donna che l’aveva denunciato era la stessa persona che aveva scritto il messaggio cifrato tre anni prima, per denunciare l’uomo sottraendosi alla possibilità di essere individuata poiché era l’unica persona a sapere molto su quella faccenda?
Il movente poteva starci, le armi anche, ma è improbabile che le ragioni dell’omicidio siano dovute ai semplici dissapori personali di un ex sottoposto contro il suo direttore. Se l’uomo ha per davvero posseduto anche le due calibro 38, c’è da credere che le abbia conservate per conto della camorra di Foggia e poi le abbia consegnate ai killer che dopo l’infame uso le hanno buttate. Di più, due malavitosi confessarono alla polizia di aver ricevuto l’incarico da una persona, a quanto pare lo stesso collezionista di armi, di spaventare e pestare il direttore regionale del registro, Caruso. I due però, quindici mesi prima dell’omicidio di Marcone, si limitarono a sparare alcuni colpi di pistola dietro la porta di Caruso, senza pestarlo.
Tutti questi indizi non bastarono agli inquirenti per incastrare e incriminare di omicidio l’armiere della mala, che, dopo cinque mesi, fu scarcerato per essere indagato a piede libero. Ma a volta la legge lascia liberi i sospettati per pedinarli e controllarli con microspie, al fine di raccogliere altre prove e di risalire ai loro complici.
Un giorno di febbraio, nove mesi dopo la sua scarcerazione e a pochi giorni dal processo a suo carico, l’armiere correva in motocicletta sulla strada costiera, tutta curve, posta tra montagna e mare, ammirando, se mai avesse occhi sensibili a quelle bellezze, lo spettacolo della costa più bella d’Adriatico. La moto sbucando dall’ultima curva prima di Mattinata, andò a sbattere contro il guardrail e rovinò sulla strada, riducendo il motociclista in fin di vita. Soccorso, ancora lucido ma con il sangue che gli usciva a fiotti dalla bocca e dalla testa, disse di essere caduto per scansare una grossa pietra posta sulla strada. La pietra non fu trovata, e lui morì dopo quattro ore. Gli affiliati alle cosche, di solito non denunciano alla polizia i loro assassini. Molti immaginarono che l’uomo, ritenuto ormai bruciato e possibile delatore, fosse stato ucciso da un mezzo che, accostandosi alla moto, l’avesse mandata fuori strada. Tutto ciò che s’immagina può essere vero.
Raffaele Vescera
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