LA DISTRUZIONE DELLE BANCHE MERIDIONALI. CONCENTRAZIONE BANCARIA ED ELIMINAZIONE DEI PLAYERS BANCARI DEL SUD ITALIA: DAL BANCO DI NAPOLI AL BANCO DI SICILIA

LA DISTRUZIONE DELLE BANCHE MERIDIONALI. CONCENTRAZIONE BANCARIA ED ELIMINAZIONE DEI PLAYERS BANCARI DEL SUD ITALIA: DAL BANCO DI NAPOLI AL BANCO DI SICILIA

LA DISTRUZIONE DELLE BANCHE MERIDIONALI. CONCENTRAZIONE BANCARIA ED ELIMINAZIONE DEI PLAYERS BANCARI DEL SUD ITALIA: DAL BANCO DI NAPOLI AL BANCO DI SICILIA

di Luca Lozupone*

Il quadro normativo

A partire dal 1990 per effetto di pressioni internazionali, e dal 2005 anche di Banca d’Italia, è stato avviato un energico processo di concentrazione bancaria.

La legge Amato del 1990, infatti, recepiva le Direttive europee ed equiparava gli istituti creditizi pubblici con quelli privati e favoriva l’adozione, per le imprese sotto il controllo pubblico, di forme societarie privatistiche. Le banche vengono incentivate a diventare società per azioni. Per quanto riguarda il credito a medio-lungo termine venne resa possibile la riunificazione in una sola società dell’attività di intermediazione mobiliare svolta in precedenza da istituti diversi.

Rendendosi necessaria una separazione tra gestione e controllo delle banche, le partecipazioni bancarie vennero affidate a determinati enti, le fondazioni, da cui venne scorporata l’attività bancaria, conferita a società per azioni di cui le fondazioni stesse possedevano inizialmente l’intero capitale: una forma dunque di privatizzazione “formale” delle banche. Con la Legge 474 del 1994 si disciplinò poi la privatizzazione “sostanziale”, cioè la dismissione delle partecipazioni in capo alle fondazioni, incentivata attraverso vantaggi fiscali.

Il Testo Unico del 1994 delle leggi in materia bancaria e creditizia sancisce l’attività bancaria come attività imprenditoriale: le banche possono operare senza limitazione di operazioni, servizi, scadenze nella raccolta ed impiego dei fondi, e possono emettere obbligazioni e strumenti di deposito. Le parole d’ordine diventano “imprenditorialità e libero mercato”. Cade la distinzione tra le banche di deposito e istituti speciali di credito, presente fino ad allora nel sistema italiano. Sotto la vigilanza della Banca d’Italia è consentita la commistione dell’azionariato di banche e industrie.

A partire da questo momento tutte le banche diventano contendibili e inizia il processo frenetico di fusioni ed acquisizioni a tutt’oggi non concluso. Se nel 1995 la quota di mercato detenuta dalle prime cinque banche è del 32,36%, alla fine del 2017 passa al 43,3% (sul totale degli attivi totali del sistema bancario italiano).

EFFETTI DELLA DEREGULATION BANCARIA AL SUD ITALIA: IL CASO BANCO DI NAPOLI

Dopo l’approvazione del Testo Unico bancario l’IRI cede le quote maggioritarie dei due istituti bancari del Sud Italia: il Banco di Napoli ed il Banco di Sicilia definiti dal Ministero del Tesoro come in “sostanziale fallimento”.

Nel 1997 il ministero del Tesoro cede il 60% del capitale del Banco di Napoli alla BN Holding, detenuta al 51% dall’Istituto Nazionale delle Assicurazioni (INA) e al restante 49% dalla BNL. Nel 2000 la holding verrà acquisita da San Paolo-Imi.

La modalità di questa privatizzazione destarono subito la netta contrarietà dell’allora presidente della fondazione del Banco di Napoli, Gustavo Minervini. Infatti nel 1996 il ministero del Tesoro azzera il capitale sociale e ricapitalizza il Banco, senza riconoscere alcun corrispettivo relativo al diritto di opzione dei vecchi soci tra cui la Fondazione del Banco di Napoli.

Quindi nel 1997 la Fondazione è stata costretta a vendere ex-lege il Banco per 61 miliardi di lire alla Bnl e Ina (entrambi ancora di proprietà del ministero del Tesoro), che l’hanno poi rivenduta nel 2000 a San Paolo-Imi per 3.600 miliardi.

L’autore Rispoli Farina nel suo libro “Il caso Banco di Napoli” descrive l’accaduto come una precisa volontà “espropriativa” della principale banca del Sud Italia, espropriata appunto per salvare una banca italiana come la Banca Nazionale del Lavoro. Infatti l’enorme plusvalenza permise il salvataggio della Bnl che prima di allora era in perdita.

A rendere l’operazione di privatizzazione del Banco di Napoli ancora più sospetta è il passaggio a valore di bilancio e pro soluto dei crediti deteriorati alla SGA (società di gestione delle attività), quale bad bank. Ricapitolando il Banco paga SGA a valore di bilancio per liberarsi dei suoi crediti deteriorati e, in caso di minusvalenze, si impegna a ripianare le perdite della SGA.

Quindi era stato predisposto un ulteriore strumento di garanzia a favore dei futuri acquirenti del Banco di Napoli che sarebbero stati sollevati dalle eventuali perdite generate dalla SGA.

È da notare che gli utili maturati dalla Società per la Gestione delle Attività (SGA) sono stati acquisiti dal Tesoro e destinati al fondo Atlante II. Questi capitali sono stati utilizzati dallo Stato italiano per intervenire nelle crisi di Mps, banche venete che nulla hanno a che vedere con il territorio in cui operò il Banco di Napoli.

Purtroppo il saldo attivo della SGA non è mai stato calcolato, e questo ha sicure responsabilità politiche, e quindi è impossibile ad oggi ristorare i soci, cioè la Fondazione Banco di Napoli.

LA PRIVATIZZAZIONE DEL BANCO DI SICILIA

Come per il Banco di Napoli, anche per il Banco di Sicilia e Sicilcassa la legge Amato del 1990 ed il Testo Unico Bancario del 1994, uniti alla confusione portata dallo scandalo “Tangentopoli”, sono l’occasione per la sottrazione di importanti istituti di credito alle regioni del Sud Italia.

All’inizio degli anni novanta la linea della Banca d’Italia appare chiara: togliere alla Regione siciliana il controllo del Banco di Sicilia. Infatti la regione esprime tre componenti su cinque del Comitato esecutivo del Banco. Il piano della Banca d’Italia è la sua fusione con la Banca di Roma. Sarà aiutata in questo dal membro del consiglio di amministrazione espresso dall’Istituto di vigilanza.

Nel 1994 gli azionisti del Banco di Sicilia sono tre: Fondazione con il 60%, Tesoro e la Regione siciliana con il 20% del capitale ciascuno. Lo Stato italiano attraverso il Tesoro scende in campo per realizzare il piano di Banca d’Italia: con 600 miliardi di lire di ricapitalizzazione punta ad acquisire la maggioranza delle azioni. La fondazione però, guidata da Carlo Dominici, chiede invece che prima venga determinato il valore del Banco e poi si passi alla ricapitalizzazione. Dominici riesce a prevalere. Per la valutazione del patrimonio viene incaricata Sofipa, società di Mediocredito a sua volta controllato dal Tesoro.

Per Sofipa il valore del Banco di Sicilia ammonta a 3. 400 miliardi di lire. Ciò significa che con 600 miliardi di lire il Tesoro non potrebbe acquisire il controllo del Banco. Ma questa valutazione non viene tenuta in conto, anche perché risulta essere superiore alla stima dei periti del Tribunale in sede di costituzione del Banco di Sicilia spa.

Viene quindi incaricata la Giuberga Worburg che valuta il Banco 1.200 miliardi. Cifra che corrisponde esattamente al capitale sociale. Più che una valutazione sembra una svalutazione.

Nel 1996 esplode il caso Sicilcassa che registra perdite per 4mila miliardi di lire.

L’occasione viene sfruttata da Roma (Banca d’Italia e Tesoro) per spingere il Banco di Sicilia ad acquisire Sicilcassa, che era in stato comatoso. Il ministro del Tesoro è Ciampi, Mario Draghi è il direttore del Ministero del Tesoro e Vincenzo Fazio è il governatore della Banca d’Italia. Probabilmente l’obiettivo è quello di rendere il rilancio del Banco impossibile e quindi non in grado di resistere ad un’acquisizione di un gruppo di fuori regione, quale sarà in seguito la Banca di Roma.

Quindi utilizzando la legge Sindona lo Stato inietta 3 mila e 600 miliardi di lire per ricapitalizzare il Banco di Sicilia-Sicilcassa attraverso Mediocredito Centrale che detiene ora il 40% delle azioni. Finalmente lo Stato italiano ha la maggioranza delle azioni del Banco (forse era questa la vera ragione dietro la spinta dello Stato ad acquisire la fallimentare Sicilcassa). Il Banco può essere ora definitivamente spolpato e consegnato alla Banca di Roma.

L’ultimo passaggio avviene nel 2002. La rete bancaria del Banco di Sicilia viene fatta confluire nella Banca di Roma mentre la holding che ne detiene le azioni prende il nome di Capitalia. La Regione siciliana e la Fondazione Banco di Sicilia, che detenevano ancora il 39% del capitale del Banco si ritrovano ora azionisti di minoranza della holding Capitalia.

Quindi il Banco risanato con i soldi statali contribuirà agli utili della Banca di Roma, che diventerà Capitalia e poi Unicredit.

In conclusione la partecipazione al Banco di Sicilia è costata alla Regione siciliana 600 miliardi di lire in aumenti di capitale per una banca che ha spostato il suo centro decisionale prima a Roma e poi a Milano. Questo evento avrebbe meritato ben altra attenzione pubblica e mediatica.

*Circolo estero M24A-ET

 

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