IL SAGGIO DI LILIANA SURABHI STEA CHE INDAGA L'UNITÀ D'ITALIA CON LE LENTI DI PSICOANALISI E PEDAGOGIA
Donata dei Nobili e Matteo Notarangelo*
È stato pubblicato il libro di Liliana Isabella Surabhi Stea, “Perdonate, Signore, questa è la mia Patria!”, una recente pubblicazione, che pone un'intrigante riflessione. L'Autrice scrive: "Perché siamo come siamo". L'ammonimento", come quello del tempio di ApolloIl a Delfi, è un'esortazione a "conoscere se stesso" , nulla di eccessivo. Con la lettura delle prime pagine, sembra che il Lettore stia per oltrepassare la soglia del tempo vissuto. Il libro è una guida, un saggio storico con una forte impronta pedagogica e psicoanalitica, che ben descrive la storia sociale delle genti delle Due Sicilie e del Regno di Sardegna. Il lavoro è stato pubblicato dalla Magenes. Un testo pregiato, arricchito dalla prefazione del giornalista, scrittore Pino Aprile. L'Autore di "Terroni", nella sua prefazione, svela, subito, la novità della pubblicazione del medico e psicoanalista pugliese e scrive: "Stea fa una psicoanalisi dell'Unità d'Italia, con visioni, strumenti mai adoperati". E racconta la storia dei Napolitani per narrare la storia dell'uomo. Una storia taciuta, negata, pregna di violenza, che ben descrive le spinte inconsce dei saccheggiatori piemontesi. Gli avvenimenti narrati sono gli atti violenti appresi dagli agiti di un popolo, teorizzati della Pedagogia Nera di Katharina Rutschky. Questi uomini, educati all'obbedienza, alla sottomissione e alla violenza, si resero corresponsabili di massacri inenarrabili. I Piemontesi, ma anche i Toscoemiliani, schiacciati dalla miseria e dalla pellagra, saccheggiarono e distrussero il Regno delle Due Sicilie, riducendolo a un generico Sud. La Scrittrice è chiara e scrive che nel suo lavoro ha deciso di occuparsi del Sud, del suo popolo gioviale, costretto a scegliere tra ribellione e sottomissione. Quel popolo pacifico, cattolico e industrioso è stato derubato, oltraggiato, deriso, offeso e umiliato per 161 anni. Ancora tutt'oggi, i governi unitari continuano a negargli l'equità territoriale e restano indifferenti agli abusi, continui, delle sue classi dirigenti. Perché?
L'altra storia
"Un attimo signora, si fermi. Il nostro Regno era come una bellissima donna, invidiata e desiderata che è stata stuprata, derubata, insultata e sfruttata, buttata sul marciapiede per mantenere il suo stupratore". È questa la risposta dell'Autrice a una signora che incontrò alla presentazione del libro "L'altra storia". È con questa metafora che il medico Liliana continua a spiegare l'idea di tanti meridionali vittime "del meccanismo psicologico di identificazione con l'agressore", che induce a disprezzare la vittima e a identificarsi con il carnefice. Da questi risvolti patologici, inizia l'analisi psicologica della Storia di un popolo di patrioti, chiamati briganti, che per dieci anni difesero la loro Patria. L'Autrice, come Dante fa con Virgilio, si lascia guidare da Pino Aprile e legge, diverse volte, un suo libro: Terroni. Questo libro mostra due aspetti storici e psicologici: l'ignoranza e la certezza. L'ignoranza degli avvenimenti storici perpetuati dalla scuola statale e la certezza di un popolo di aver subito, senza alcuna ragione, una guerra, mai dichiarata, di colonizzazione materiale e mentale con eccidi, fucilazioni e stupri. Liliana Stea nel suo libro lo scrive, e lo ripete, "me lo devono ancora insegnare cosa hanno fatto a noi, meridionali, gli Austriaci per dovercene, anche noi, liberare". E ancora, si domanda, "da chi ci avevano liberato? Se non erano gli Austriaci i nemici dei miei antenati, chi erano? Non me l'hanno mai detto, finché non ho letto Terroni". Poi, hanno fatto circolare la narrazione del Sud povero e ignorante. Da qui, la necessità di leggere i singoli capitoli del libro della psicoanalista, per scoprire che il popolo del Regno delle Due Sicilie non aveva motivo per sentirsi inferiore, povero, dal momento che "erano produttori e non consumatori." Liliana Stea lascia parlare alcuni viaggiatori e studiosi. Goethe scrive a suo padre che l'essere stato a Napoli per un mese gli renderà lieto l'animo per tutto l'anno". Nel "Viaggio in Italia" riporta che a Napoli ha visto un solo accattone, cosa invece abituale a Londra dove per le strade era tutto un brulicare di mendicanti. "Un uomo povero, - riferisce - che a noi sembra miserabile, può in questi paesi (meridionali) non solo soddisfare i suoi bisogni più urgenti, ma anche godersi beatamente la vita [...]. E, poi, Giacinto de' Sivo, chiarisce la condizione di vita dei Duosiciliani: "Bella somma delle cose il reame era il meglio felice del mondo". Allora, non eravamo miserabili come continuano a raccontare? Si, ma il popolo Duosiciliano era oppresso dal re Borbone, direbbe il detrattore savoiardo.
Gli eccidi taciuti
E vennero a liberare chi non ha mai chiesto di essere liberato. Nel libro, le ragioni dell'invasione sabauda sono descritte considerando il movente psicologico, spiegato dalla Pedagogia Nera. L'invidia per la magnificenza della terra meridionale e l'educazione autoritaria sabauda sono le due caratteristiche psicologiche che spiegano i tanti eccidi, tra cui quelli di Casalduni e Pontelandolfo, commessi dai "fratelli" piemontesi, che vennero a liberarci (sic!) . Per far vivere l'emozione del Lettore, l'Autrice sceglie di far parlare il diario del bersagliere, soldato semplice, Margolfo, che scrive: "Entrammo nel paese: subito abbiamo cominciato a fucilare i preti e uomini, quanti capitava, indi il soldato saccheggiava, ed infine abbiamo dato l'incendio al paese, abitato da circa 4.500 abitanti". La scrittrice coglie il momento per ricordare che la storiografia ufficiale tace e non racconta che il generale Enrico Cialdini dava ordini ai suoi soldati di massacrare popolazioni inermi e non tralascia, inoltre, che il garibaldino Nino Bixio invitava i "liberatori in camicia rossa" a straziare le popolazioni e bruciare gli abitanti del Sud a fuoco lento. La psicoanalista Stea non esita a dirlo: "Il soldato piemontese che assaliva un paese per " iscacciare i barbari", lo faceva al grido di piastre piastre, per farsi consegnare le monete d'argento prima del massacro". Altro che fratelli liberatori.
La narrazione storica dalla scrittrice si avvale dei documenti d'archivio per mostrare che in quarnt'anni le popolazioni Duosiciliane crebbero di un quarto, mentre raro era l'omicidio, pochi i poveri, la fame quasi ignota, poche le tasse, molte feste popolari e circolava la moneta in oro e argento. L'Autrice va oltre e cita il professore Ubaldo Sterlicchio, che scrive: "In vent'anni, le finanze dello Stato borbonico conseguirono una solidità tale che i titoli del debito pubblico, alla Borsa di Parigi oscillavano tra i 115% e i 120% rispetto ai valori facciale di 100". Francesco Saverio Nitti, invece, - ricorda Liliana Stea- descrive la situazione finanziaria delle Due Sicilie nel 1860, in cui le imposte erano inferiori a gli altri stati; i beni demaniali ed i beni ecclesistici rappresentavano una ricchezza enorme; il debito pubblico era quattro volte inferiore a quello del Piemonte; la quantità di moneta metallica circolante due volte superiore a quella di tutti gli altri Stati della penisola messi insieme. "Nella somma delle cose - ripete la scrittrice Stea - il reame era il meglio felice del mondo" e tanto bastava a spiegare la spinta psicologica dei razziatori sabaudi, dominati da un re indebitato.
Erano briganti
No, patrioti. Il brigantaggio è stata resistenza, insorgenza di contadini e pastori contro gli invasori. "I briganti furono partigiani che difendevano la loro patria, la loro terra, il loro re Borbone e la Chiesa cattolica". I capi briganti Crocco, Romano, Chirichigno e "Il principe dei briganti" Luigi Palumbo di Monte Sant'Angelo erano soldati del disciolto esercito borbonico e non comuni delinquenti. Quello che accadde tra il 1860 e il 1861 - scrive Alessandro Romano e riporta Liliana Stea- non fu una semplice guerra tra due eserciti, ma uno scontro tra due civiltà: quella venuta dal Nord, preda della nascente massoneria liberal borghese inglese e quella del Sud cattolica tradizionalista. Uno scontro tra due soldati, analfabeta quello del Nord e alfabeta quello del Sud. Due tipi di soldati che ammazzavano per motivi diversi. Il brigante per difendere la sua terra e il suo benessere e il bersagliere per obbedire a ordini di conquista e di saccheggio. E allora, perché raccontano un'altra storia? Per Liliana Stea, non ci sono infingimenti e scrive: "La Pedagogia Nera che si è infiltrata nei nostri cuori e nelle nostre menti dopo l'unità ci fa sentire sempre 'piccoli' e inadeguati…". Su questo particolare, il Lettore potrà apprezzare un documento di Valentina D'Amato, rinvenuto presso l'Archivio di Stato di Taranto." La Magistratura locale ne è consapevole e lo sancisce nel campo di imputazione stesso, con quel "cangiare e distruggere la forma del governo". Questo aspetto è stato poi specificato da Giuseppe Ferrari, il quale riconosce che i briganti non erano malfattori, bensì oppositori politici: "Sono briganti - scriveva - ma ad ogni rivoluzione di Napoli essi contano come una forza politica. [...] E tanto nel 1799, quanto nel 1818, i padri degli attuali combattenti riconducevano i Borboni sul trono di Napoli. [...] Sono briganti, ma hanno una bandiera". Nel libro di Liliana Stea c'è dell'altro: è una miniera di conoscenza, che nasconde tante verità.
Il Lettore le potrà apprezzare, leggendo i tanti affascinanti capitoli e una ricca e documentata appendice, aggiunta alla fine del testo.
*Sociologi
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