di Maurizio Scillitani*
Giorni fa discutevo on line con il caro amico Massimo, dei criteri di ripartizione del Recovery Plan e di come il Mezzogiorno sia stato storicamente sfavorito nella suddivisione dei finanziamenti statali, e alle mie osservazioni Massimo ribatteva “Maurizio, sono 20 anni che lavoro in Regione Veneto e so benissimo come vengono spartiti i fondi sia statali che europei. Fatto 100 il totale, 80 va alle regioni del Sud e 20 a quelle del Nord. Il Sud è stracolmo di fondi ma non sanno spenderli perché non sanno programmare ma soprattutto se li fottono i mafiosi con il consenso dei Lazzari elettori, basta con il piagnisteo”. Conoscendolo come persona assolutamente preparata e in buona fede, mi sembra opportuno approfondire la questione in maniera più precisa e ordinata e per questo è opportuno partire da quanto è sancito dalla Costituzione.
Nel 2001 su iniziativa politica della Lega fu operata la riforma del titolo V della Costituzione, che aveva lo scopo di dare maggiore autonomia alle regioni e agli altri livelli di amministrazione locale ed erano introdotte nuove misure per ridurre la disparità tra i comuni in tema di servizi.
L’articolo 117 stabiliva la definizione da parte dello stato dei livelli essenziali di prestazione (LEP) in modo da uniformarli su tutto il territorio nazionale, mentre l’articolo 119 della riforma prevedeva che lo stato mettesse a disposizione un fondo perequativo, da distribuire ai comuni in base a criteri di equità, destinando risorse per aiutare i territori più svantaggiati, cioè quelli che non riuscivano ad adeguarsi ai livelli di prestazione definiti dai LEP.
A 20 anni dalla riforma, lo Stato non ha ancora individuato i LEP e di conseguenza è stato necessario trovare un diverso metodo di redistribuzione del fondo perequativo. In assenza di criteri di qualità, si è deciso di incentrare il sistema sul calcolo di fabbisogni standard e capacità fiscale. I fabbisogni standard sono indicatori che stimano per ogni ente locale, il fabbisogno finanziario necessario per svolgere le proprie funzioni fondamentali e sono definiti in base alla spesa media storica per i servizi di comuni tra loro simili per caratteristiche demografiche, socio-economiche e morfologiche. La capacità fiscale, invece, è la stima delle risorse che un ente locale ricava dalle sole entrate tributarie del proprio territorio: se la differenza è positiva, cioè l’ente considerato non riesce con le proprie risorse a soddisfare il fabbisogno di servizi del proprio territorio, allora riceverà risorse dal fondo.
La maggior parte dei comuni italiani riceve risorse, indipendentemente dall’essere al Nord, Centro, Sud o isole e nel 2016 la differenza tra il fabbisogno totale e la capacità fiscale di tutti i comuni italiani è stata di circa 8 mld di euro (fonte openpolis.it vedi articolo ”cosa prevede il federalismo fiscale per i comuni”). Si è così costruito un criterio basato sulla cosiddetta spesa storica dei Comuni, cioè attribuendo più soldi a quelle realtà con maggiori servizi presenti sul territorio (Nord) ed inferiori a quelle con meno servizi (Sud) con casi eclatanti di disparità. Ad esempio a Reggio Calabria per gli asili nido sono trasferiti 90mila euro, mentre alla più piccola Reggio Emilia 9 milioni di euro, 100 volte di più e continuando con gli esempi, la spesa per la cultura a Reggio Emilia prevede il riconoscimento di 21 milioni di euro, a Reggio Calabria solo 4, per l’istruzione, alla prima sono concessi 28 milioni e alla seconda 9, per l’edilizia abitativa, alla Reggio emiliana sono elargiti 54 milioni e alla calabrese 8 appena, per le politiche sociali (disabili inclusi), alla prima vanno circa 40 milioni, alla seconda 17. Mi fermo con gli esempi per non essere noioso ma credo che il concetto sia sufficientemente espresso.
La cosa ancora più assurda di questa situazione che ha del paradossale è che una famiglia a Reggio Calabria paga 783 euro di tasse in più rispetto, mediamente, a una di Udine.
Una riforma introdotta nel 2012 cercava di mettere un argine al calcolo dei finanziamenti basato sulla spesa storica, che cristallizzava inefficienze di gestione ma tale riforma, che ha cominciato a essere implementata nel 2015, ha per ora portato limitatissimi cambiamenti nelle modalità di finanziamento dei comuni. Questo fatto è solo in parte spiegato dalla gradualità con cui la riforma è stata introdotta, poiché, anche a regime, il volume delle risorse dei comuni sottoposte a ricalcolo sarà limitato. La riforma non avrà quindi effetti sostanziali sulle finanze dei comuni e sull’efficienza dello loro spesa come riportato dall’Osservatorio dei Conti Pubblici Italiani (CPI) dell’Università Cattolica del Sacro Cuore nell’articolo di Alessandro Banfi “L’introduzione dei fabbisogni standard nei finanziamenti ai comuni: la montagna ha partorito un topolino?” del 15 aprile 2019.
In un’ottica più ampia riporto il grafico della ripartizione per macroaree della spesa effettuata dallo Stato italiano.
La Svimez – l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno - ha evidenziato che il Sud con una popolazione pari al 34,3% di quella nazionale, riceve il 28,3% della spesa pubblica complessiva, mentre il Centro-Nord con il 65,7% della popolazione italiana percepisce il 71,7% del totale di denaro pubblico. In altre parole, al Sud viene tolto ogni anno il 6% di quello che le spetterebbe sulla base del solo criterio della numerosità abitativa, quando a questa dovrebbe poi aggiungersi una robusta iniziativa di investimento per dare slancio allo sviluppo meridionale. In soldoni il 6% equivale a 61,5 miliardi di euro che ogni anno, meglio ribadirlo, prendono la direzione del Centro Nord e a questi vanno poi aggiunti almeno altri 45 miliardi che il Sud riconosce al Nord a fronte dei prodotti e servizi vendutigli. Il Rapporto annuale 2020 di Eurispes, l’Istituto di Studi Politici, Economici e Sociali degli italiani, conferma per la prima volta in maniera ufficiale l’esistenza, da decenni, di politiche predatorie dello Stato, a svantaggio del Sud - espressioni del Rapporto, non mie -, stimati in 840 miliardi di euro sottratti al Sud a partire dal 2000 e fino al 2017.
Partendo da questi dati allora ben si comprendono le parole dell’ex Rettore della Bocconi Guido Enrico Tambellini che in una recente intervista sul quotidiano Il Foglio ha sentenziato: “… Per tornare a crescere (in Italia ndr)… bisogna investire nei settori e nelle aree geografiche che sono all’avanguardia. … Le politiche più efficaci per avvicinare l’Italia all’Europa sono anche quelle che aumentano la distanza tra Milano e Napoli, tra aree avanzate e arretrate del Paese. …”. In sintesi: il Nord Italia è avanti e deve continuare a restare avanti, il Sud è indietro e deve precipitare ulteriormente, pazienza che si sia già da tempo sull’orlo del baratro.
La cosa più grave è che questo ragionamento non appare “sconvolgente” ai più per il semplice motivo che così si è fatto fino ad ora, è questo il “normale” modo di agire che lo Stato ha messo in atto praticamente da sempre – in rete sono disponibili le serie storiche dei finanziamenti tra Nord e Sud dall’Unità ad oggi.
La giustificazione politica è sempre stata che la “locomotiva del Nord avrebbe trainato il Sud”. Questa frase la sento ripetere da oltre 50 anni ed ancora oggi è il cavallo di battaglia di tanti politici di ogni schieramento (Bonaccini, Zaia, Fontana, Moratti, Salvini ma anche di molti politici, forse meglio definirli politicanti del Sud) a giustificazione del fatto che ad esempio i soldi del Recovery Plan, per cui sono in atto da tempo grandi manovre per ottenerli in maggiore quantità, dovrebbero confluire più cospicui al Nord e addirittura il piano vaccinale dovrebbe privilegiare le Regioni del Nord per farlo ripartire immediatamente. Ma la locomotiva è ferma su un binario morto da anni (dal 2000 il Nord cresce con percentuali dello zero virgola) e questa presunta azione di traino non c’è mai stata neanche negli anni di maggior sviluppo del paese e il divario tra Nord e Sud è aumentato piuttosto che diminuito. Quello che peraltro ottusamente sembra non venga capito dalla nostra classe politica e dai poteri economici che, come ha dichiarato Gian Maria Fara presidente di Eurispes in occasione della presentazione del Rapporto 2020, “… il Prodotto interno lordo del Nord Italia dipende molto poco dalle esportazioni all’estero e per grossissima parte invece dalla vendita dei prodotti al Sud … ogni ulteriore impoverimento/indebolimento del Sud si ripercuote sull’economia del Nord, il quale vendendo di meno al Sud, guadagna di meno, fa arretrare la propria produzione, danneggiando e mandando in crisi così la sua stessa economia”. Lo ha capito benissimo anche la UE – e quindi la Germania che ne tira le fila e che necessita della ripartenza dell’Italia per poter a sua volta consolidare la propria ripresa economica - e infatti ha previsto che al Sud dovrebbe essere destinata la parte cospicua dei soldi del Recovery Plan, circa il 70%. Sarà forse arrivato il momento di cambiare il paradigma interpretativo, politico ed economico, delle diseguaglianze tra Nord e Sud ma anche tra aree costiere ed interne, metropolitane e piccoli Comuni e su come intervenire per un modello di sviluppo omogeneo del Paese?. Lo spero vivamente.
Per quanto riguarda poi la questione delle ruberie al Sud, altro elemento sollevato da molti, penso che il Nord abbia poco da insegnare a riguardo poiché gli scandali economicamente più sostanziosi si sono verificati proprio in Veneto e Lombardia dove d’altra parte circolano più soldi (Mose e Expo insegnano e l’elenco sarebbe molto lungo). Il malcostume delle tangenti sugli appalti, del pizzo ai commercianti, c’è ed esiste al Sud come al Nord ed è ampiamente documentato nelle tante inchieste giudiziarie oltre che nei documenti della Commissione Antimafia e non può essere confinato come penosa prerogativa del Sud.
Vera è invece la scarsa capacità che le regioni meridionali hanno mostrato da anni nell’attrarre e nello spendere le risorse dei fondi europei, rispetto a quelle del Nord. Una recente analisi del Sole 24 ore conferma una generalizzata “apatia” del Sud sia nella formulazione dei progetti da finanziare che nella gestione degli stessi, anche se vengono evidenziati segnali di miglioramento. La qualità del lavoro svolto dai funzionari e dagli “amministrativi” che lavorano negli enti del Sud è certo da migliorare ed occorre mettere in campo meccanismi di controllo adeguati per monitorare la realizzazione dei progetti finanziati, ma non certo per inettitudine o incapacità intrinseca o per una presunta vocazione delinquenziale delle genti del Mezzogiorno come sbraitato da Feltri & c.. Verrebbe da chiedersi, senza polemica ma solo per verità storica, quanti sono i funzionari che lavorano negli enti del Nord di origine meridionale che hanno contribuito con il loro lavoro e zelo alle fortune di quelle regioni? In Toscana, dove vivo, ne conosco tanti e credo che analoghe situazioni siano presenti anche in Veneto, Piemonte, Emilia Romagna e Lombardia e se fossero rimasti al Sud e avessero avuto le stesse opportunità organizzative e strutturali avrebbero lavorato sicuramente altrettanto bene. Non c’è voglia di piangersi addosso e avverto invece segnali incoraggianti dalla società civile delle regioni meridionali circa la volontà di mettersi in gioco, di proporsi e di misurarsi con nuove sfide ed opportunità alzando la voce per avere a disposizione gli stessi strumenti economici e strutturali che hanno avuto altri.
*M24A-ET, TOSCANA
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