Ci rimettono i pazienti, ci guadagnano le strutture... del nord
Di Massimo Mastruzzo.
La mobilità sanitaria da una regione all’altra è così subdola che se da un lato sembra voler offrire a migliaia di pazienti il diritto a curarsi nei più importanti ospedali del Nord, in realtà dall'altro nasconde un business che, beffandosi della Costituzione, muove un enorme flusso di denaro: circa 4,6 miliardi di euro che coinvolge quasi 800mila italiani, del Sud, che migrano da Napoli o da Reggio Calabria per farsi operare nei poli d’eccellenza della Lombardia e dell’Emilia Romagna. È subdolo perché se bloccato penalizzerebbe le cliniche all’avanguardia dell’asse Milano-Bologna, trascinando nel baratro anche l’indotto sorto a ridosso delle cittadelle della salute: alberghi, negozi, appartamenti.
La Lombardia, in testa al ranking dei virtuosi, importa 161.000 pazienti l’anno e vanta un credito di 808,6 milioni di euro; all’opposto la Calabria deve saldare prestazioni, tecnicamente Drg, per 319 milioni.
La stretta ai rubinetti del turismo sanitario porterebbe al ridimensionamento o addirittura, in prospettiva, al crollo di questo fenomeno: un sistema efficiente sempre più ragionevolmente efficiente grazie ai contributi che arrivano dalle regioni più deboli.
Il diritto dei pazienti del Sud di avere un servizio pubblico qualitativamente equo lungo tutta la penisola, paradossalmente si scontra con la necessità di dover garantire a questi poveri pazienti del sud la “libertà” di poter migrare per farsi curare e naturalmente di mantenere alta l’efficienza e i bilanci delle strutture del nord.
Il business della migrazione sanitaria, come quella universitaria, e di professionalità che mensilmente versano i propri contributi nei comuni e nelle regioni che "ospitano" il loro reddito e lo trasformano nel minaccioso residuo fiscale, è tale perché fortemente voluto e sostenuto da tutti i partiti nazionali in barba all'Equità Territoriale e quanto previsto dall'articolo 3 della Costituzione.
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